
I mafiosi sono pupi. Fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro, ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi. Non sono uomini d’onore ma pezze da piedi.
A pronunciare queste parole, avvolta nel suo scialle nero intriso di dolore, fu Serafina Battaglia, la prima donna a testimoniare in giudizio contro Cosa nostra. La prima a far crollare l’alto muro dell’omertà mafiosa, collaborando con il giudice istruttore Cesare Terranova durante il processo per l’omicidio del figlio.
9 Aprile 1960, Godrano, provincia di Palermo. Stefano Leale, commerciante e mafioso, viene ammazzato dopo essere stato espulso da Cosa nostra. Sua moglie, Serafina Battaglia, incoraggia il figlio Salvatore Lupo, 21 anni, a vendicare il padre uccidendo i due boss di Alcamo, Filippo e Vincenzo Rimi (considerato il leader morale della mafia siciliana degli anni Cinquanta e Sessanta). L’attentato nei confronti dei presunti mandanti fallisce e anche “Totuccio” viene assassinato.
Mi hanno tolto mio figlio. Finché mi avevano tolto mio marito, non avevo detto niente, ma mio figlio è sangue mio, e io devo reagire.
La morte del figlio cambia le carte in tavola: Serafina, donna abituata a sottostare alle regole mafiose, decide di parlare per vendicare il sangue del suo sangue. Durante l’interrogatorio racconta al giudice Terranova come si è svolto l’omicidio del suo Salvatore, per il quale sono imputati Francesco Miceli, Salvatore Maggio e Paolo Barbaccia. Dopo un lungo iter giudiziario, nel 1971 la condanna del primo processo viene annullata dalla Corte di Cassazione e il 13 Febbraio 1979 il nuovo dibattimento porta all’assoluzione dei fratelli Rimi per insufficienza di prove.
Nonostante non riuscisse a trovare alcun avvocato disposto a difenderla, la madre-coraggio non si ferma, fornendo le sue testimonianze in tutta Italia: parla di oltre 20 omicidi, spiega come sono organizzate le cosche locali e descrive come si svolgono i traffici illeciti fra le famiglie mafiose di cui le aveva parlato il marito. “La vedova della lupara”, così viene chiamata dai cronisti, porta sempre con sé una pistola P38: “La tengo per difendermi anche se ora la mia arma è la giustizia”.
Al giornalista Mauro De Mauro, rapito da Cosa nostra nel settembre del 1970 e mai più ritrovato, racconta:
Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo… I mafiosi sono pupi. Fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro, ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi. Non sono uomini d’onore ma pezze da piedi.
La stampa parla di una donna coraggiosa e determinata che in aula tira fuori il fazzoletto imbrattato del sangue del figlio, non risparmia sputi agli imputati e si inginocchia davanti ai giudici per chiedere che sia fatta giustizia. Dopo l’assoluzione dei presunti assassini, Serafina non esce più di casa. Chiusa nel suo dolore di madre ferita a morte, viene accusata di essere “pazza” dai parenti e abbandonata. Muore il 10 Settembre del 2004, a 84 anni, quasi del tutto dimenticata, in un appartamento a pochi passi dal Tribunale di Palermo.
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