Di Michela Donvito
Alle sue parenti inesperte insegna, meglio di Locusta, come seppellire le spoglie grigie dei mariti tra le chiacchiere della gente.
(Giovenale, Satire)
Sin dai tempi più remoti, le donne raccoglitrici hanno imparato a conoscere le proprietà, sia benefiche che malefiche, delle erbe. Com’è noto, alcune lo facevano di mestiere ed erano in grado con le loro conoscenze di regalare il benessere o l’oblio. Anche le donne romane conoscevano bene le caratteristiche delle erbe e con esse preparavano principalmente medicinali per curare malattie ginecologiche. In alcuni culti femminili, si creò tra le donne la circolazione di queste conoscenze atte soprattutto ad aiutare molte di loro durante la gravidanza e il parto.
Questi culti però, come ad esempio quello di Bona Dea, presso il cui tempio vi era una sorta di farmacia in cui venivano conservati dalle sacerdotesse i filtri medicamentosi, erano rigorosamente vietati agli uomini. Si trattava, quindi, di una “medicina” prettamente femminile che veniva tramandata da donna a donna, di madre in figlia.
Alcune di loro, però, fecero un cattivo uso di queste conoscenze ad esempio procurandosi un aborto, all’insaputa dei mariti. Gli uomini erano all’oscuro di come si confezionassero questi “filtri” ma al tempo stesso perfettamente consapevoli di come le loro mogli li maneggiassero con destrezza, per questo iniziarono a sospettare e ad avere paura.
Catone gli diede man forte, scrivendo:
Nullam adulteram non eandem esse veneficam.
(Non c’è un’adultera che non sia anche avvelenatrice)
Il primo processo per avvelenamento avvenne a Roma nel 331 d.C. Secondo quanto riportato da alcune fonti, dopo la morte improvvisa di alcuni personaggi illustri dell’epoca, una schiava confessò alle autorità che queste morti non erano state naturali ma la conseguenza di una muliebris fraus e accusò alcune donne di avvelenamento. Nelle case di queste vennero trovate alcune pozioni sospette e 20 donne furono convocate nel Foro per il processo. Due di loro, Cornelia e Sergia si giustificarono dicendo che si trattava di venena bona (medicinali), la schiava allora, che in cambio delle confessioni aveva ricevuto l’impunità, le invitò a bere il contenuto delle ampolle e tutte le venti donne accettarono. Dopo qualche minuto morirono. Il fatto che le accusate decisero di bere il filtro, però, ci dovrebbe far riflettere perché questa scelta ci crea dei dubbi sulla loro colpevolezza: è possibile, infatti, che le stesse fossero all’oscuro della sua nocività e avessero semplicemente cercato di creare delle sostanze medicamentose con delle erbe, come si era soliti fare a quei tempi, senza alcuna cattiva intenzione. Gli uomini romani, però, temevano di essere avvelenati dalle mogli infedeli.
Dopo questo episodio, a Roma fu creata un’apposita commissione per indagare su episodi del genere. Da allora circa 70 donne furono condannate a morte. Publilia e Licinia furono accusate di aver avvelenato i rispettivi mariti, consoli in carica, quindi non si è certi che non si trattasse, invece, di un omicidio politico. Le due donne furono condannate e strangolate brutalmente dai loro stessi parenti, come era previsto nell’antico codice.
Ma veniamo a Locusta o Lucusta (Gallia,…- Roma, 9 gennaio 69), che può essere considerata la prima vera assassina, di cui si abbia notizia, ad aver praticato l’omicidio seriale con il veleno. Aveva una bottega a Roma, sul colle Palatino, dove aveva affinato la tecnica e sviluppato magistralmente le sue conoscenze. Era un’assassina di professione ed operava su commissione. Secondo quanto riportato da fonti storiche (Storia di Roma, Dione Cassio – Annali, Tacito) Agrippina Minore, la seconda moglie dell’Imperatore Claudio, le commissionò l’omicidio del marito per favorire l’ascesa al trono del figlio Nerone: Locusta avvelenò un fungo che, durante un imponente banchetto, fu servito all’imperatore.
La sua carriera criminale proseguì sotto il principato di Nerone (56-58 d.C.) che chiese a Locusta di avvelenare Britannico, figlio legittimo di Claudio, per questo erede di diritto al trono, ma la donna al primo tentativo fallì e il veleno provocò in lui una semplice diarrea. Allora Nerone, adirato, la frustò violentemente perché secondo lui “aveva dato a Britannico una semplice medicina al posto del veleno”. Locusta si giustificò, dicendo che aveva usato una dose leggera per mascherare il delitto. Il secondo tentativo fu fatale per Britannico: dopo averlo sperimentato su più animali per essere certa di non fallire, la donna offrì il veleno alla vittima. Tutti credettero che lo stesso fosse stato colpito da una crisi epilettica e, per evitare che la verità venisse a galla, fu seppellito in tutta fretta sotto una pioggia torrenziale. Per questo delitto Locusta fu premiata da Nerone con possedimenti e discepoli.
In seguito, mentre Nerone, in fuga, prese del veleno dalla stessa Locusta per suicidarsi, la donna gli sopravvisse ma solo per pochi mesi: fu condannata per i suoi delitti e condotta in catene per tutta Roma e, infine, giustiziata durante le Agonalia dedicate a Giano. Non si sa di preciso con quale metodo venne uccisa: la leggenda vuole che sia stata violentata da una giraffa e poi fatta a pezzi da vari animali feroci, ma si ritiene altamente improbabile. Un’altra ipotesi vuole che sia stata strangolata e il suo cadavere dato successivamente alle fiamme.
La poca prudenza degli uomini comincia una cosa che, per sapere allora di buono, non si accorge del veleno che vi è sotto.
(Niccolò Machiavelli, Il Principe, 1513)
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