
Alle 21:15 del 3 Settembre 1982, ventiquattro giorni prima del suo sessantaduesimo compleanno, la A112 su cui viaggia il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, viene affiancata in via Isidoro Carini a Palermo da una BMW, dalla quale partono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccidono il Prefetto e la moglie. Nello stesso momento l’auto con a bordo l’autista e agente di scorta, Domenico Russo, viene affiancata da una motocicletta dalla quale parte un’altra micidiale raffica di colpi: l’uomo resta ferito e 12 giorni dopo muore all’ospedale di Palermo.
Il 4 settembre durante i funerali nella chiesa palermitana di San Domenico, la folla di presenti protesta contro i politici presenti accusandoli di aver lasciato solo il generale. Si susseguono attimi di tensione, le autorità vengono sottoposte a lanci di monetine e insulti al limite dell’aggressione fisica. Solo il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, viene risparmiato dalla contestazione.
Dell’omelia del Cardinale Pappalardo, fanno il giro dei telegiornali le seguenti parole:
Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici [..] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo.
Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo, come mandanti, i vertici di Cosa nostra: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell’attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, entrambi all’ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno. Nella stessa sentenza si legge:
Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale.
Nel 2018 il collaboratore di giustizia Simone Canale, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli, rivela che il boss Nicola Alvaro, originario di San Procopio, detto u zoppu, era presente all’agguato, confermando le precedenti accuse contestategli nel 1982 e decadute perché il testimone era stato ritenuto inattendibile.
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