Il 27 Agosto 1979 in casa sono presenti diverse persone: Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, i genitori di lei, la sorella ed il cognato con i figli ed altri amici. Arrivata la sera vanno tutti via, i genitori di Dori portano via anche Luvi, figlia della coppia nata 2 anni prima, per farle trascorrere qualche giornata al mare nella loro casa di Porto San Paolo.
Fabrizio e Dori rimangono soli in casa: verso le 23.00, la coppia si prepara ad andare a dormire quando Dori sente qualcuno salire velocemente le scale del piano superiore. La donna si affaccia sul ballatoio per capire cosa stesse succedendo, a quel punto viene aggredita da due uomini armati e col volto coperto da un cappuccio con due fori all’altezza degli occhi, mentre un terzo uomo punta un fucile contro Fabrizio De Andrè.
Fummo presi e fatti scendere al piano terra, dopo averci fatto calzare scarpe chiuse e portato con noi alcune paia di calze. Ci fecero uscire dal retro della casa e fatti sedere sulla nostra macchina, una Citroen Diane 6, targata MI. Prima di chiudere la porta chiesero a Fabrizio dove fosse l’interruttore per spegnere le luci del giardino.
La coppia viene fatta salire sui sedili posteriori della Citroen con due banditi a fianco, l’altro guida l’auto verso la statale Tempio-Oschiri. Tra Monti e Alà dei Sardi vengono fatti scendere dalla vettura e consegnati ad un quarto malvivente che, nonostante gli accordi prevedano un trasferimento ad Orune, li porta a Sa Linna Sicca, nelle montagne di Pattada, dopo ore di marcia forzata. Dori ricorderà:
Scendemmo definitivamente dalla macchina e iniziammo il tragitto a piedi per la campagna che alternava tratti scoscesi a tratti pianeggianti e poi ripidi, tra cespugli e rovi, con la testa incappucciata. Camminammo per circa due ore. Dopo una sosta di riposo, riprendemmo il trasferimento in percorsi ancora più accidentati, camminando per qualche ora ancora. Dopo di che, sfiniti, ci fermammo, trascorrendo la notte all’addiaccio. Il cammino riprese il giorno successivo, percorrendo un tragitto interamente in salita, fino all’imbrunire. Raggiunta la destinazione, per la prima volta ci tolsero le maschere e alla nostra vista si presenta la sagoma di un bandito incappucciato. Apprendemmo che si trattava di uno dei nostri custodi, che ci accompagnerà per tutta la prigionia e che Fabrizio battezzerà col nome “il rospo” per via della sua voce gracchiante.
Il 29 agosto la polizia ritrova l’auto di De André sul molo di Olbia. I prigionieri rimangono nel primo nascondiglio per circa una settimana dormendo all’aperto. Da quando a Dori e Fabrizio tolgono le bende, i due custodi restano sempre incappucciati. Ogni sera arriva un terzo componente della banda che porta viveri e indumenti. Le parole d’ordine erano “San Pietro” per il vivandiere e “San Giovanni” per i custodi. Poi la coppia viene spostata in un nuovo rifugio, dove resta per qualche mese. Racconterà Dori:
Quando è iniziata la stagione fredda ci hanno dotato di una piccola tenda per ripararci dalle intemperie. Abbiamo sostato in quel luogo fino alla interruzione delle trattative condotte dai secondi emissari. Le informazioni che ci davano erano che il padre di Fabrizio non volesse pagare il riscatto. Ci proponevano di liberare Fabrizio per pagare il mio riscatto o, viceversa, di liberare me affinché Fabrizio convincesse il padre a pagare la mia liberazione. Alla supplica di Fabrizio di alleviarci dalla torture delle bende i banditi acconsentirono, legandoci però con delle catene perché non scappassimo. Uno dei banditi, che di tanto in tanto veniva per accertarsi delle nostre condizioni, raccomandando ai custodi di trattarci bene, comunicava in italiano corretto e forbito, si esprimeva in modo calmo e gentile, che Fabrizio chiamava “l’avvocato”. Dopo il 5 novembre siamo stati nuovamente spostati su un altro versante della montagna. In quel rifugio le tende erano due, una per noi e una per i custodi; ci dotarono anche di un fornello da campo e di una bombola di gas per preparare cibi caldi. Fino ad allora ci nutrivano con pane e formaggio, salsiccia e scatolame.
Nei mesi autunnali ed invernali, nei monti di Pattada, vi è un freddo pungente. Racconterà Fabrizio:
Ci sono stati giorni che pensavamo di non riuscire a sopravvivere a quelle condizioni estreme. Conservai il tappo di una scatoletta, non si sa mai che avessi potuto usarlo qualora le forze non mi avessero sorretto.
Fin dalle prime fasi delle indagini, coordinate dal capitano Vincenzo Rosati del Comando dei Carabinieri di Tempio, gli inquirenti ritengono che il sequestro sia maturato in ambiente orunese. Gli investigatori mettono sotto controllo gli apparati telefonici dei sospettati: il nucleo originario della banda risulta essere composto proprio da due orunesi e da un veterinario di Radicofani (Siena), vicino all’ambiente pastorale sardo in Toscana. I tre, nei mesi precedenti il rapimento, si sono recati spesso a Tempio per cercare contatti che consentissero di avere le informazioni per portare a compimento il progetto criminale. Nella benda ci sono uomini di Pattada e alcuni latitanti che avrebbero dovuto sorvegliare la coppia durante la prigionia. Viene proposto di collaborare all’azione anche ad un uomo di Tempio che, dopo aver rifiutato, fa circolare la notizia del progetto di un sequestro di persona da 2-3 miliardi di lire.
Da subito alcuni testimoni raccontano di incontri frequenti nel distributore Agip di Tempio fra il basista e i due orunesi del nucleo organizzativo. É lo stesso basista a commettere il passo falso di proporre di collaborare ad un amico che poi si lascia sfuggire qualche parola di troppo in un bar della cittadina. Gli inquirenti capiscono anche che, all’interno della banda, stanno maturando due diverse correnti che vedono l’anima orunese a tratti contrapposta a quella pattadese, contrasti che causano ritardi nelle trattative e nella liberazione degli ostaggi. Persino il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, amico del padre di Fabrizio, si reca in Sardegna per favorire un buon avvio delle indagini.
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