La violenza è un fatto sociale, in quanto ha una forza indipendente e coercitiva in grado di influenzare il comportamento dell’individuo e come tale ha sempre fatto parte della società. Oggi assistiamo alla violenza come inermi, bombardati costantemente dai mass media i quali spettacolarizzano le notizie di cronaca.
Molto ampia è la terminologia a riguardo, che in base ai periodi acquista maggiore risalto: si parla di violenza di genere, violenza contro i bambini, violenza ambientale, violenza culturale, ecc. Il problema riguarda soprattutto il modo in cui vengono comunicate le notizie di cronaca. Infatti, osservando con maggiore attenzione tutti i vari notiziari, appare chiaro che più cruenta è l’informazione maggiore è l’impatto che produce sugli spettatori facendo aumentare gli ascolti.
A volte, guardare un notiziario o leggere il giornale equivale a ricevere un flusso di dati che, per la loro selezione e diffusione, distorcono l’immagine che in realtà ci arriva. La cosa peggiore è che, se i mezzi di comunicazione offrono questo genere di notizie, significa che c’è un pubblico che le consuma e che, in qualche modo, si è abituato all’impatto che producono. È proprio per questo che i mass media sono sempre in cerca di questa tipologia di informazione che superi, in termini di impatto, la precedente. Il dolore, la morte, le torture e qualsiasi sorta di evento tragico sono ormai diventati spettacolo.
La sociologia si è occupata poco della violenza nello specifico, facendola rientrare nel più ampio specchio della devianza. Essa veniva considerata uno strumento e, come tale, scarsamente interessante da studiare. Secondo Durkheim:
la società può influenzare il comportamento del singolo producendo il rifiuto dello status-quo e comportamenti anticonvenzionali.
E’ quindi chiaro come non esistano singolarmente individui violenti ma persone che “assorbono” dalla società quegli insegnamenti che spesso si traducono in violenza e aggressività, rivolta non solo verso gli altri ma anche verso se stessi.
Il criminologo americano Randall Collins ha teorizzato il termine “violenza contemporanea”, secondo cui i cambiamenti della società, i nuovi media digitali, i continui mutamenti dello scenario politico-economico e la costante rappresentazione della criminalità e della violenza da parte dei mass media, hanno fortemente influito sulle interazioni umane, cambiando radicalmente il modo di relazionarsi e di comunicare, di costruire e percepire la propria identità e la realtà. La contemporaneità diventa qualcosa di pericoloso da cui difendersi. Aumenta il senso di insicurezza tipico della società del rischio teorizzata da Bauman.
Lo spettatore osserva e assorbe passivamente lo storytelling del fatto di cronaca, cerca di comprendere ma lo fa senza “sentire”, non riesce a provare compassione verso la vittima ma appare domato, obbediente (G. Gabner). Il rischio maggiore è che si attivi un processo attraverso cui ci si identifichi con personaggi negativi.
Gerbner e i suoi collaboratori (1979), studiando la violenza in televisione per dodici anni (1967-1978), hanno scoperto che l’80% dei programmi conteneva atti violenti. In particolare, sono stati contati otto episodi di violenza per ogni ora di programmazione. Il team di Gerbner è inoltre giunto alla conclusione che i programmi più violenti sono quelli rivolti ai bambini. Alcuni tipi di personaggi sono di solito più vittime di atti violenti rispetto ad altri: le donne (soprattutto le più giovani e le più anziane), gli stranieri e i membri delle classi sociali più ricche o più povere. Secondo Greenberg, in televisione la violenza verbale è più frequente di quella fisica, del furto e della truffa. In effetti, la violenza verbale appare più vicina alla realtà quotidiana di quanto non lo sia la violenza fisica (M. Britto Berchmans).
Il web, i social network, ci hanno resi tutti cittadini attivi all’interno di uno spazio virtuale dove riceviamo notizie in tempo reale, le discutiamo, le confrontiamo, le condividiamo e approfondiamo senza limiti di tempo e spazio (Menduni, 2009). Da qui si evince la difficoltà di distinguere tra realtà “reale” e realtà “virtuale” e la relativa influenza che esse hanno sul sistema di valori e credenze.
La violenza in televisione e nel web produce fondamentalmente tre tipi di effetti:
- aumento dell’aggressività attraverso un processo di apprendimento e imitazione;
- aumento dell’insensibilità alla violenza in genere (effetto desensibilizzante);
- aumento della paura di rimanere vittima di atti di violenza.
La violenza mediatica, virtuale o sociale, non sembra avere più confini. Modifica i nostri comportamenti e il cambiamento è sempre più tangibile. Tutto questo non fa altro che rafforzare l’individualismo, l’aggressività, quella voglia di dominio e controllo sull’altro che caratterizzano, oggi più che mai, le relazioni umane e l’inizio di una nuova “cultura della violenza” (Gallino, 2006).
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