Di Cristina Casella
Non se ne parla, forse perché se ne ignora l’esistenza. O semplicemente risulta scomodo farlo.
La pedofilia femminile rappresenta un fenomeno reale quanto perturbante, capace di infrangere le certezze razionali ed emotive a cui ciascuno di noi si àncora.
Materializzare l’idea di una donna abusante, infatti, sconvolge ogni stereotipo mulìebre, sradicandone le concezioni presenti nell’immaginario collettivo. In una società che narra sempre più storie di donne vittime, sembra impensabile, se non blasfemo, parlare di atteggiamenti erotici femminili nei confronti di un bambino. Ancor più se l’abuso è perpetrato da una madre verso un figlio. Si stenta a credere che dietro l’immagine di una donna, per natura incline all’accudimento, la cura e l’affettività, possa celarsi una connivente omertosa o una cyber-pedofila che si aggira tra le maglie della rete alla ricerca di materiale audiovisivo che possa saziare le sue incomprensibili fantasie sessuali.
Questo mondo, volutamente oscurato con una sorta di «negazione collettiva», esiste al pari della rispettiva declinazione maschile. Dobbiamo prenderne coscienza, imparando a concepire ogni singolo comportamento come espressione di una personalità maturata all’interno di un contesto di relazioni e interazioni, ove l’elemento più importante non è riconducibile alla differenza di genere quanto alla complessità della mente umana.
Il fenomeno della pedofilia rosa ha fatto la sua comparsa intorno alla fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, quando donne perlopiù statunitensi e canadesi – divorziate o vedove dalla condizione economica agiata – hanno iniziato a recarsi verso paradisi esotici alla ricerca dei cosiddetti «beach boys», bambini e adolescenti indigeni capaci di appagare i loro desideri sessuali. La donna, proprio come l’uomo, organizza le sue vacanze in mete tropicali per cercare ciò che non ha nella vita di tutti i giorni: passione, sesso e, talvolta, anche sentimento. Si stima che ogni anno oltre 80.000 donne pratichino turismo sessuale. Le sex tourists, però, sembrano non poter essere paragonate ai turisti sessuali uomini, in quanto non molestano e non violentano.
Non è affatto semplice tracciare un profilo univoco della donna pedofila, così come avviene per l’uomo. La difficoltà risiede innanzitutto nel modo in cui la figura dell’abusante è stata assimilata nell’immaginario sociale: primariamente maschio, età avanzata, fisionomicamente sgradevole e dai tratti psicotici. Non vale sempre questa regola. La persona che abusa sembra avere connotazioni normali, modi garbati e gentili, non legata ad una specifica fascia anagrafica ma, soprattutto, non necessariamente di sesso maschile. Sfatato il mito della peculiarità di genere nell’abuso, è possibile identificare i contesti entro i quali matura tale comportamento deviante.
La donna pedofila materializza i suoi perversi desideri sessuali o all’interno delle mura domestiche, quindi nel proprio contesto familiare, o fuori casa. In veste di connivente o come «semplice» reclutatrice. «Direttamente» con i propri figli o «indirettamente» con altri bambini. Le manifestazioni sono diverse, variando da semplici espressioni di affetto e tenerezza a vere e proprie forme di molestia o violenza, come la masturbazione, lo sfregamento dei genitali e la penetrazione effettuata anche con l’ausilio di oggetti. La scelta dell’età della vittima pare sia riconducibile strettamente alla personalità dell’abusante e si rifletterà nel legame oggettuale e nel comportamento messo in atto.
Il modus operandi dei trasgressori di sesso femminile varia a seconda del contesto ove nasce l’abuso. Se le violazioni prendono forma all’interno della famiglia – la donna – nelle connotazioni di madre, nonna, zia, etc., adotta strategie seduttive che sfociano in comportamenti di cura, protezione e amore. La pedofilia femminile che si attua tra le mura domestiche può agire indisturbata per molti anni, in quanto non ha bisogno di conquistare la fiducia ed il silenzio del bambino. La dualità della relazione innesca una risonanza intima: la madre, spinta dal desiderio di soddisfazione sessuale, realizza il proprio potere, il bambino – invece – realizza il bisogno di cura e gratificazione. Per quanto concerne la pedofilia agita al di fuori dell’ambiente familiare, essa affonda le sue basi in un repertorio di seduzione e corteggiamento che sembra appartenere ai rapporti amorosi tra adulti. Come detto precedentemente, la coercizione verbale è l’arma su cui la donna pedofila erige le sue tattiche: non ha bisogno della violenza per coinvolgere il bambino/a in atti sessuali, conquisterà la sua fiducia promettendogli affetto e protezione.
Ciò che differenzia l’attuale pedofilia rosa rispetto a quella del passato è la sua necessità di manifestarsi, quasi a voler rivendicare una parità con l’antagonista maschile. Crolla, dunque, il dogma della maternità sana ad ogni costo, il principio secondo cui ogni femmina dispensa protezione e inattaccabilità verso un cucciolo della propria specie.
Esiste, dunque, il volto dismorfico che qualche donna sceglie di indossare, profanando un corpo di cui dovrebbe essere custode.
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