Il suicidio appare come l’azione più personale che un individuo possa compiere, che viene a configurarsi come una dura sfida al mondo di cui fa parte. Ad un certo punto della storia, l’uomo scoprì che, oltre a poter uccidere i suoi simili e gli animali, aveva la possibilità di uccidere se stesso: da quel momento l’atteggiamento che egli ebbe nei confronti della morte e della vita non fu più lo stesso.
Non si saprà mai quale fu tra gli uomini antichi colui che, nella notte dei tempi, comprese di poter porre fine alla sua vita di propria mano, né le motivazioni che lo spinsero ad un gesto così definitivo, resta il fatto che il suicidio è presente da sempre nelle società e nella mitologia antica.
Nell’Egitto dei Faraoni, veniva “concesso” di suicidarsi al colpevole di alto rango che così sfuggiva ad una morte ignominiosa. La regina Cleopatra si sottrasse alla prigionia presso Ottaviano, compiendo un suicidio rituale: facendosi mordere dall’aspide (ureo sacro), tramite divino, divinizzò la sua persona ascendendo al Pantheon egiziano.
Nella mitologia Nordica, Wotan accoglie nel Walhalla soltanto coloro che sono morti violentemente: i guerrieri ed i suicidi. Dalla tradizione della Havannah viene chiamato “Signore degli Impiccati” poiché pare si sia tolto la vita in questo modo. Altra tradizione lo vuole suicida per mezzo della sua spada.
Presso i Maya, Ixtab “La Signora della corda”, che veniva rappresentata appesa ad un capestro, era la dea dei suicidi e questi andavano in un paradiso proprio, in quanto erano considerati sacri.
La Grecia antica inizialmente pare avere un atteggiamento di ripulsa nei confronti dei suicidi; il cadavere infatti veniva privato della mano destra che veniva sepolta altrove, mentre il corpo veniva tumulato fuori dalle mura della polis. Anche la radice semantica del termine suicidio = autoktonia mantiene un valore emozionale “forte”: la morte di sé è simile all’assassinio dei parenti.
D’altro canto, tutte le dissertazioni antiche relative alla visione suicida sono improntate a profonda pacatezza ed equilibrio: il togliersi la vita è scelta personale anche se grave, ma in nessuna maniera tale gesto doveva essere un’offesa agli dei e l’impulso alla morte propria doveva essere nobile e glorioso: a Mileto, il Senato si oppose ad una epidemia di suicidi di fanciulle e adolescenti perché ritenuti immotivati.
Per contro, a Massilia, se un cittadino riusciva a giustificare la sua scelta di morte, gli veniva dato modo di eseguirla a spese dello Stato. In tal modo, il problema suicidio veniva spostato di ottica: non più se farlo o meno, bensì come farlo e soprattutto con la maggiore dignità possibile.
E’ questa la concezione del suicidio che viene tramandata ai Romani, i quali introdussero, da eclettici quali erano, un contenuto emozionale nel gesto suicida: uccidersi non è più un male, non esiste alcun tabù relativo alla morte volontaria e questa diviene banco di prova del coraggio e della ”virtus” latina: il Seppuku giapponese, meglio conosciuto come Harakiri, nasce da una identica matrice ideologica.
La Bibbia, nel Vecchio Testamento, non giudica negativamente il suicidio mentre condanna l’omicidio in Caino ed il sacrificio umano (seppur involontario) in Jefte. Ben quattro suicidi vengono riportati: Saul e il suo scudiero, Sansone, Abimeloch e Achitofel. Il Nuovo Testamento riporta il suicidio di Giuda Iscariota, ma l’ottica è ambigua o quanto meno si presta ad una interpretazione opposta a quella data dai commentatori posteriori: il gesto di Giuda viene visto come una catarsi che si esplica nel gesto definitivo alla ricerca di un riscatto al vero gesto, omicida: il tradimento di Cristo. Sarà soltanto dopo il IV secolo d.C. che la Chiesa condannerà il suicidio.
E’ la necessità di reagire agli eccessi di coloro che cercano il martirio e agli eccessi dei donatisti che costringeranno Sant’Agostino e successivamente gli altri Vescovi cristiani a stigmatizzare il suicidio come crimine in sé, in quanto contrario al divieto divino di non uccidere: anzi, chi si uccide è un duplice assassino in quanto uccisore di se stesso e negatore del dono di Dio, quale è la vita.
Nel 533 d.C., il Sinodo di Orleans decise di negare le esequie ai suicidi sottoposti a giudizio, quello di Praga nel 562 d.C. negò le esequie a tutti i suicidi e nel 693, a Toledo, venne presa la decisione di non seppellire più i suicidi in terreno consacrato e di scomunicare chi è vittima di se stesso e chi ci prova, fallendo. E’ da tale momento che il suicidio viene ad assumere quei contorni cupi ed angosciosi, che ancora oggi ci turbano e inquietano.
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