Di Cristina Casella
Indizi, solo indizi. Questo è ciò che resta a seguito del compimento di un’azione delittuosa. Sempre più spesso e in molteplici casi. Soggetti indagati senza che nessun elemento ne convalidi l’effettiva presenza sulla scena del crimine, ipotetici agiti ricostruiti mediante supposizioni non provate.
Destini affidati a traballanti apporti testimoniali, come agli occhi talvolta dismessi delle telecamere. Cieli scandagliati al fine di ricostruire ogni singolo spostamento del sospetto, radiografando tutto ciò che gli appartiene. Scenari ove la prova scientifica continua ad essere la pedina mancante della scacchiera.
Com’è possibile commettere un crimine ed esimersi dal rilascio di impronte o tracce? Si può depistare, sistemando in maniera logica la sequenzialità degli eventi?
Affatto. Eppure anche la cronaca nostrana tende a mostrarci un profilo di offender sempre più abile nell’esecuzione e nel camuffamento di un crimine efferato. Basti pensare ad uno tra i casi più recenti di nera, l’omicidio di Elena Ceste. Finora nessuna prova tangibile è riuscita ad incastrare il marito, presunto esecutore materiale del delitto. Gli inquirenti sostengono che la donna sia stata strangolata e successivamente trasportata nei pressi del fiume Tanaro (ove poi ne sono stati rinvenuti i resti).
Nessun riscontro sull’auto che, con molta probabilità, è stata utilizzata dall’uomo per dislocarne il corpo ormai esanime. Stessa sorte per quanto concerne l’abitazione della coppia. Nulla di nulla. Eppure chi ha ucciso Elena, forse, sapeva che l’acqua e il relativo processo di saponificazione cancellano ogni segno, rendendo altresì difficile identificare le reali cause del decesso.
Tale attuazione comportamentale potrebbe essere letta alla luce di un’accresciuta consapevolezza forense acquisita attraverso la fruizione mediatica, la quale nulla nasconde in merito ad investigazione e tecniche criminalistiche. Gli assassini, in pratica, stanno imparando dai media a trasgredire senza commettere troppi errori.
Questo è ciò che viene definito CSI effect, sulla scia della popolare serie televisiva americana. Il termine viene utilizzato per designare quel fenomeno per cui si nutrono aspettative irrealistiche nei confronti delle prove scientifiche e del metodo investigativo delle scienze forensi. La mediaticizzazione di specifici casi potrebbe influenzare un offender nel compimento dei suoi futuri comportamenti criminali.
Soprattutto nei casi seriali: l’accessibilità ai contenuti di riviste specializzate, di programmi televisivi e via dicendo, condurrebbe l’assassino ad operare una rivisitazione del suo modus operandi, limitandone o affinandone gli agiti.
Il comportamento violento, tra l’altro, viene appreso in base all’osservazione e all’imitazione di determinati modelli. Attraverso il processo imitativo il soggetto si appropria di insiemi articolati e complessi di conoscenza, evitando di assimilare quanto ha condotto ad esiti svantaggiosi. Tali assunti possono essere estesi anche all’attuazione di gravi azioni come l’omicidio, poiché il comportamento criminale non è ereditario, ma affonda le sue radici nella ripetitività esperienziale. Eludere le conseguenze di un evento delittuoso, dunque, costituisce un processo prettamente cumulativo.
Tuttavia, scartando la teoria dell’apprendimento indotto, è possibile che tale rinnovata abilità sia semplicemente frutto del background del reo, il quale, avendo già sperimentato determinate situazioni, ha “migliorato” la gestione delle sue azioni criminali.
Lascia un commento