Di Cristina Casella
Nel corso di varie epoche e culture gli atteggiamenti nei confronti della morte sono stati assai diversi e, anche considerando un periodo determinato, variano notevolmente a seconda degli individui e della loro età.
Se un tempo la morte era considerata un evento naturale, inevitabile e scontato che, per quanto terribile ed angoscioso, veniva saggiamente affrontato e preparato, oggi sembra essere diventata una strana e scomoda novità, che disturba e distoglie dalle sicurezze acquisite, dai piccoli o grandi paradisi che ognuno si illude di poter costruire. È per questo che va taciuta, negata, rimossa, o al massimo vissuta a distanza. La morte viene pertanto privata del carattere di evento sociale che l’ha sempre contrassegnata e viene gradualmente allontanata dall’ordinarietà. Essa dunque cambia, si trasforma, si de-spazializza: in certi casi si propone come fenomeno tecnico cui si rimprovera sia un abusivo prolungarsi che un’interruzione precoce, in altri sembra quasi avvicinarsi fornendo una vera e propria possibilità di controllo (death control).
Lo scenario cambia in maniera radicale quando la morte entra inaspettatamente, con arroganza e prepotenza, nella sfera delle nostre relazioni più intime, nei nostri affetti più cari. Essa provoca un dolore immenso e difficile da comprendere per l’intensità, l’unicità e la complessità delle sue caratteristiche. Elaborarla diviene poi ancor più difficile se la perdita riguarda un bambino. La morte di un figlio è un accadimento inaccettabile, soprattutto nella nostra epoca e nelle avanzate società occidentali: a partire da un’immagine religiosa ove un figlio morto non risiede accanto a Dio-Padre, ma semplicemente scompare portando con sé anche la nostra immortalità, tutto termina nel presente. I bambini sono sempre di meno e sempre più “preziosi”, tanto che vanno protetti, curati e ricoperti di attenzioni impensabili nelle numerose famiglie di anche solo 50 anni fa. Il senso della vita si lega alla costruzione di qualcosa che possa sopravviverci. In questo contesto l’elaborazione del lutto è molto difficile, se non impossibile da affrontare.
Per “colmare” il dolore, fornendo in qualche modo la possibilità di continuare a “far vivere” il bambino deceduto, “generare” un altro figlio sembra essere l’unica soluzione possibile. Tale processo di sostituzione si manifesta quando la madre non ha saputo accostarsi al proprio lutto: di fronte ad una pena così grande, così catastrofica e destabilizzante, il rifiuto si innesca automaticamente e senza che il soggetto se ne renda conto. Generare un altro bambino per sostituire quello morto è, in realtà, un’evoluzione del lutto precedente che pertanto non viene interrotto: la madre si ritroverà catapultata nel cerchio della ripetizione, ripercorrendo l’evento luttuoso solo apparentemente metabolizzato. Nella migliore delle ipotesi, questa ripetizione consente di acquisire maggiore consapevolezza e di sviluppare le risorse necessarie in vista di una risoluzione senza sconfitti. La proiezione, però, assume un carattere decisamente distruttivo per il nascituro, poiché fin dall’inizio contiene un rifiuto. Egli, pur essendo desiderato e disperatamente voluto, porta nel proprio contratto un conflitto non risolto, spettro di una guerra che non è la sua. Attraverso la sostituzione il nuovo nato non viene chiamato a rimpiazzare, bensì a fornire caratteristiche simili al suo predecessore per offrire una nuova soluzione all’epilogo finale.
© Riproduzione riservata
Lascia un commento