Di Paolino Francesco Santaniello
Il reato è la manifestazione empirica di un comportamento che può essere tenuto con coscienza e volontà, qualora non sia commesso per negligenza.
Questa è la definizione dell’art. 42 c.p., il quale nei commi seguenti sancisce quali siano gli status psicologici dell’agente rimproverabili, applicando il principio costituzionale di “personalità della responsabilità penale” ex art. 27 Costituzione.
In un diritto penale di stampo liberista e sensibile alla forte incisività della pena nella sfera privata del soggetto colpevole, non si può trascendere dall’esigenza di applicare una sanzione che “aderisca” perfettamente e congruamente al colpevole. La giusta pena infatti è fondamentale per una rieducazione del soggetto, poiché tale effetto si realizza solo nel momento in cui il condannato comprenda di meritare la pena per il fatto concretamente posto in essere (art. 27 Costituzione, comma 3).
L’ art. 133 del codice penale, rubricato “Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena”, contiene una serie di parametri a cui il giudice deve fare riferimento nell’applicare la pena. Per cui, tale norma va letta in combinato disposto con altre norme del codice penale per una valutazione in diritto completa e che tenga conto di tutti i parametri, sia oggettivi (es. modalità dell’azione, tempo di commissione del fatto, mezzi, etc.) che soggettivi.
Questi ultimi sono appunto il dolo e la colpa sanciti dall’art. 43 c.p., che tuttavia non fa alcun riferimento all’intensità del dolo o al grado della colpa.
Tralasciando la colpa, che è espressamente prevista dalla legge caso per caso, per valutare l’intensità del dolo, come elemento psicologico del reato, è opportuno staccarsi da aprioristiche definizioni e non limitarsi al testo scarno dell’art. 43 c.p.. Quest’ultimo, infatti, definisce il dolo come mera previsione e volontarietà del reato, senza alcuna differenziazione sul fronte volontaristico.
Il codice penale non offre definizioni capaci di sopperire a tali lacune, specialmente riguardo all’aggravante ad effetto speciale del cd. “dolo di premeditazione”.
La premeditazione è una circostanza accessoria del reato (cioè non necessaria per la sussistenza dello stesso) che comporta un aggravamento della pena. Precisamente la premeditazione è una circostanza soggettiva, in quanto fa riferimento ad un preciso status psichico del soggetto. Status considerato dall’Ordinamento talmente riprovevole da comportare un mutamento di specie della pena da applicare (cd. circostanza ad effetto speciale).
Si pensi all’esempio scolastico dell’omicidio volontario sanzionato fino a 21 anni che, se commesso con “premeditazione”, comporta la pena dell’ergastolo, come sancito dall’art. 577 c.p., n.3 (norma che tipizza le circostanze speciali circa la fattispecie dell’omicidio ex 575 c.p.).
Tuttavia la cd. Premeditazione non trova alcuna descrizione nel corpo normativo, né nelle leggi complementari. Tale carenza descrittiva, oltre ad essere in contrasto con il principio di “determinatezza” delle norme penali, genera profonde incertezze negli operatori di giustizia, oltre che con il principio di prevedibilità della sanzione, secondo cui l’agente nel momento in cui vuole intraprendere un certo iter criminis deve essere conscio della pena a cui va incontro.
Dottrina e Giurisprudenza per anni si sono prodigate nella ricerca di una definizione esaustiva del dolo di premeditazione, al fine di distinguerlo anche da ipotesi al confine con esso, come il dolo di preordinazione.
In un primo tempo, si è pensato che la premeditazione consistesse in un frigido “pacatoque” d’animo, ovvero un atteggiamento freddo ed emotivamente impassibile del reo, dinanzi alle conseguenze del reato. Questa teoria però rischiava di confondere il dato caratteriale con quello volontaristico. Il diritto penale non punisce in base alla personalità del reo, bensì giudica il fatto, la condotta tenuta e la volontà.
Per cui, in seguito, si è scelto di definire la premeditazione come una species del dolo di proposito: la premeditazione sussisteva qualora, tra l’ideazione della condotta e la volontaria manifestazione della stessa, intercorresse un lungo lasso temporale. Tale teoria però non prende in considerazione adeguatamente l’elemento psicologico tipico della premeditazione. Essa è anacronistica rispetto al moderno diritto penale, in quanto opera una valutazione della condotta ex ante e non a seguito della sua concreta manifestazione.
In ultima battuta, recente giurisprudenza consolidata ha affermato che la valutazione della premeditazione va fatta ex post, tenendo conto delle concrete modalità del fatto da cui desumere l’intensità della volontà criminosa. Il lasso di tempo deve essere lungo in relazione alla fattispecie concretamente posta in essere. Infine, durante tale lasso temporale, l’agente deve superare tutte quelle spinte oggettive e soggettive che possono farlo desistere dal commettere reato con una maturazione e un consolidamento della voluntas criminis.
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