
Se la maggior parte di noi tende ad avere opinioni molto positive su di sé e si ritiene, pertanto, migliore di quel che è realmente, molte altre tendono a sottovalutare se stesse e le proprie capacità. Il concetto che ciascuno di noi ha di sé si sviluppa in età precoce.
Scrive Mariglena Gjoni:
È a partire dal primo anno di vita che emergono i primi elementi del sé, esattamente dal momento in cui il bambino diventa in grado di considerare se stesso come oggetto del proprio pensiero, oltre che come oggetto dell’attenzione da parte di un altro significativo. […] Ci sarà un concetto di sé positivo allorché il bambino sperimenta frequenti successi nelle piccole attività che intraprende. Impara, così, a vedere se stesso come capace di risolvere i problemi in maniera efficace e di controllare dall’interno gli eventi esterni. Ci sarà, invece, un concetto di sé negativo quando il bambino è esposto a frequenti fallimenti, che lo portano a percepirsi come incapace di risolvere i problemi. Le origini di questo concetto di sé tenderanno a rimanere e anche da adulti rimarrà la tendenza ad affrontare le situazioni prevalentemente in base al concetto di sé formato da bambini, specialmente se si tratta di situazioni nuove e abbastanza ansiogene [1] .
Essere stati sminuiti, disprezzati, abusati durante l’infanzia, quindi, può determinare un modo negativo di vedere le cose, il che, a sua volta, può limitare la capacità di una persona creando in questa sfiducia, dubbi e persino pensieri suicidari.
Un team di psicologi, guidati da William Swann (Università del Texas a Austin), ha dimostrato che molti di coloro che non credono in se stessi cercano addirittura conferme della propria percezione distorta: ad esempio, se chi vuol dare agli altri il messaggio di essere piacevole si comporta in modo da rendersi effettivamente gradevole, chi crede di essere una persona sgradevole può in effetti comportarsi in maniera tale da rendersi sgradevole e, così, avere la conferma di ciò che già pensava di sé.
Sulla base delle sue osservazioni, Swann ha formulato la teoria della self verification (auto-verifica), ovvero la tendenza di ciascuno di noi a cercare conferme delle nostre convinzioni positive e negative. A volte questa tendenza arriva al punto che le persone spingono gli altri a giudicarle negativamente, al fine di vedersi confermate nella loro disistima. Dietro a tutto ciò, c’è un forte bisogno di coerenza: quando qualcuno ci ribadisce ciò che già pensiamo, riteniamo che tutto vada come deve andare.
Scrive Monica Pedrazza, docente di Psicologia Sociale presso l’Università di Verona:
I tentativi e gli sforzi di auto-verifica sono volti alla soddisfazione di bisogni e di controllo e previsione della realtà. […] La verifica empirica che questa teoria propone, permette alle persone di essere rassicurate sul fatto che le aspettative degli altri verso di loro sono appropriate e che le relazioni sociali si svolgeranno in modo agile.
Chi si considera un perdente cerca di non dare il meglio di sé, prepara il proprio inconscio al fallimento e, soprattutto, non farà nulla per migliorarsi nella definizione e il raggiungimento dei propri obiettivi.
[1] M. Gjoni, Il concetto di sé nella personalità
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