Di Paolino Francesco Santaniello
La rapina ex art. 628/1 c. p. – definita propria – prevede lo spoglio del bene altrui mediante le condotte strumentali di violenza (art. 610) o minaccia(art. 612), il tutto per conseguire un ingiusto profitto che deriva dall’impossessamento.
Trattandosi di un delitto contro il patrimonio, il profitto va inteso in senso patrimoniale, ovvero nell’attribuzione di beni o diritti che ampliano il patrimonio di chi li consegue senza alcun fondamento di diritto.
Si tratta di un reato di evento a dolo specifico (come il furto), in quanto tutto l’iter criminis è diretto al conseguimento dell’ingiusto profitto che si ricava dall’impossessamento del bene al detentore che subisce la vis.
In giurisprudenza è stato chiarito che per violenza si intende una condotta dannosa e coattiva, la quale può essere fisica o psichica, cioè a danno della persona offesa o di un bene, nonché di un terzo caro alla persona offesa, la cui capacità di difesa viene compressa dalla condotta antigiuridica dell’agente. La minaccia, invece, è la prospettazione di un danno futuro ed ingiusto (ai danni della persona, beni o terzi) idonea a inficiare la libertà di autodeterminazione di chi la subisce.
Per cui occorre precisare che l’idoneità causale della violenza o della minaccia va valutata ex post, tenendo conto delle modalità di attuazione del fatto criminoso, dell’autore e dei mezzi da lui adoperati, nonché della persona che la subisce (per cui ben distinto dai concetti civilistici della violenza o minaccia, nonostante alcune somiglianze).
E’ pacifica in giurisprudenza la configurabilità del tentativo ex art. 56 c.p., quando la vittima, nonostante gli atti idonei diretti in modo non equivoco a compiere la rapina, ha ancora margini di rientrare nel possesso del bene sottratto dall’agente, dato che il momento consumativo del reato coincide con l’effettivo impossessamento del bene.
Più problematica è l’ipotesi del 2 comma dell’art. 628, detta rapina impropria, in quanto la violenza o la minaccia non sono strumentali alla sottrazione del bene (che è già avvenuta ), ma al conseguimento del possesso o dell’impunità, ovvero dopo lo spoglio. Nei casi pratici spesso si configura come un furto andato male, in cui lo spoglio del bene è avvenuto da parte dell’agente, il quale minaccia o colpisce la vittima resistente, pur di conseguire il possesso o l’impunità.
In tal caso, la soglia consumativa del reato è spostata all’attuazione della violenza o la minaccia, e l’impossessamento è oggetto della volizione dolosa dell’agente. L’elemento soggettivo è doppiamente specifico, dato il richiamo tacito al delitto di furto (già dolo specifico) la cui volizione dolosa si “amplia”, poiché l’agente dopo lo spoglio vuole conseguire l’impunità o garantire il possesso di quanto antigiuridicamente conseguito (ergo ancora dolo specifico).
Numerosi dibattiti sono sorti con riguardo alla possibilità di configurare la rapina impropria tentata (628 secondo comma + art.56 c.p.)
Parte della giurisprudenza ha negato la configurabilità del tentativo nella rapina impropria, dato che sembrerebbe un reato istantaneo, ovvero che si consuma contestualmente alla minaccia o la violenza.
Tuttavia è stato eccepito che la fattispecie va letta alla luce della realtà concreta dei fatti, ammettendo la configurabilità del tentativo anche nella rapina impropria. Precisamente l’art. 56 si può configurare quando l’agente ha effettuato lo spoglio del bene, ma l’efficacia della violenza o della minaccia viene stroncata da fattori causali esterni alla condotta dell’agente, la quale viene interrotta, non garantendogli la sottrazione perpetuata. (Cassazione SS.UU. 19/4/12 n. 34952)
Questa ricostruzione è ispirata al principio di legalità della CEDU ex art. 7, secondo cui nell’interpretare una norma bisogna tener conto non solo della fattispecie astratta, ma soprattutto di quella vivente (principio di accessibilità della norma, corollario del principio di legalità CEDU).
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