
Di Giulia Panico e Carmela Frattulillo
Alcune donne ci prendono gusto: anche per loro cummannari è megghju di futtiri; o sono le circostanze a spingerle avanti: il marito è stato ucciso, o è stato ucciso il padre o il fratello e nessuno degli affiliati è pronto per assumere il comando della cosca, loro sono pronte.
(Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, “Donne e vendetta: Azucena”)
Per un lungo periodo è valsa l’idea che le donne in ambiente criminale fossero all’oscuro dei crimini perpetrati dai loro uomini, che il loro ruolo fosse limitato a quello di madre e moglie. A lungo gli studi sulla devianza femminile sono stati molto scarsi, probabilmente in base alla convinzione che essa incidesse in modo notevolmente ridotto sulla criminalità in generale. Dalle statistiche giudiziarie emerge, infatti, che la percentuale di donne criminali è numericamente inferiore a quella maschile.
Le vecchie teorie spiegano lo squilibrio numerico in base alle caratteristiche biologiche e psicologiche delle donne, creando un tipo ideale di donna biologicamente predisposta al crimine, la delinquente nata. Si parte, dunque, dal presupposto che i comportamenti criminali poco si addicano al ruolo e alla condizione sociale della donna.
I primi studi sulla criminalità femminile risalgono alla scuola Positivista e in particolare all’opera di Lombroso e Ferrero, “La donna criminale” (1893). I due studiosi convengono nell’idea che la vera natura della donna, l’essere madre, sia antitetica rispetto al crimine e che il conservatorismo che la caratterizza la porti a essere più rispettosa della legge e meno congenitamente incline dell’uomo a commettere reati. Secondo Lombroso, la donna criminale possiede caratteri “mascolini” e cioè più intelligenza, più attivismo e più vivacità di quanto mediamente ne possiedano le donne “normali”, di solito meno evolute, meno attive e meno intelligenti del maschio.
La donna delinquente viene descritta dallo studioso come forte, vanitosa, crudele, vendicativa, qualche volta intelligente e sempre più deviata sessualmente; la donna normale, invece, come devota a Dio, alla famiglia, mancante di vigore fisico e rigore mentale, piena di amore materno ma mai di passione sessuale (C. Lombroso & G. Ferrero, 1893).
Secondo William Isaac Thomas, invece, la devianza femminile è di natura sessuale, le ragazze delinquenti sono amorali e usano strumentalmente il sesso come “risorsa” per soddisfare i loro desideri di sicurezza e riconoscimento. Per evidenziare le differenze che intercorrono tra i due sessi, Thomas utilizza i concetti di maschio catabolico e femmina anabolica; il maschio è catabolico in quanto, come risultato della sua creatività, distrugge energia e dunque eccelle nelle arti e nelle scienze, mentre la donna è anabolica poiché accumula energia quale risultato della sua passività. In tal modo, le supposte differenze fisiologiche tra i due generi sono utilizzate come un mezzo per spiegare le variazioni del comportamento sociale, fra cui quello deviante, nell’uomo e nella donna. Ancora una volta, Thomas fa riferimento alla presenza di desideri e aspirazioni derivanti dagli istinti biologici, con una differenza: questi possono confluire verso adeguati obiettivi tramite la socializzazione.
Otto Pollack nel suo studio intitolato “La criminalità della donna” riconosce l’importanza dei fattori sociali ma focalizza l’attenzione sul carattere “mascherato” della criminalità femminile, che impedirebbe di conoscere la reale entità e natura dei reati commessi dalle donne. Pollack parla di “numero oscuro”, per cui solo una piccola parte dei reati commessi dalle donne emerge perché denunciati o scoperti dalle forze dell’ordine; inoltre lo stesso sistema penale, concepito e creato da uomini, sarebbe caratterizzato da una maggiore tolleranza verso i comportamenti femminili. Una “tolleranza” che sarebbe presente sia nelle norme incriminatrici, che giustificano i comportamenti devianti femminili considerandoli meno gravi, sia nelle stesse persone che le applicano, giudici e forze dell’ordine, che manterrebbero un comportamento caratterizzato dalla “chevarly” cioè più protettivo e benevolo. In realtà, sostiene Pollack, le donne, conducendo la loro esistenza tra le mura domestiche, avrebbero maggiori possibilità rispetto agli uomini di nascondere i propri crimini nell’intimità della casa; inoltre grazie alla loro natura “biologicamente ingannevole” userebbero gli uomini nella commissione dei reati, evitando l’arresto.
Tutti ricorrono, insomma, come Lombroso, a un modello biologico determinista per il quale le donne diventerebbero delinquenti in presenza di un’anormalità biologica o fisica. Qualsiasi manifestazione di non-conformismo della donna ai modelli stereotipici che la rappresentano è ancora trattata come un sintomo di patologia.
Sul piano del procedimento penale, almeno sino agli anni ’90 non fu contestata alla donna la partecipazione all’associazione di stampo mafioso o il concorso esterno, ma l’ipotesi del favoreggiamento personale con la conseguenza però che, alla presenza di un vincolo di parentela, operava la causa di non punibilità previsto dall’art. 384 c.p.
Soltanto in epoca più recente, con l’affermarsi di un diverso modello culturale originato dai movimenti di emancipazione e dal peso maggiore della donna nella società, la criminalità femminile è divenuta materia d’indagine e di trattazione teorica anche da parte di studiose che, con le loro ricerche, hanno inteso sensibilizzare sulla “invisibilità” delle donne in campo criminologico, sia come autrici di reato che come vittime, e altresì proporre una visione diversa del crimine e della sua prevenzione. Queste studiose, hanno cercato di dare una spiegazione al “perché le donne delinquono meno degli uomini”, affrontando, però, il problema da una prospettiva diversa: non più una minore criminalità femminile per cause biologiche, per la pietas materna o per l’organizzazione sociale, ma per fattori connessi all’emancipazione, alla differenziazione dei ruoli, alle opportunità.
Secondo Freda Adler, la donna non delinquerebbe quanto l’uomo perché ancora asservita a lui: solo quando avrà raggiunto la medesima posizione sociale, sarà in grado di competere anche sul piano criminale.
La Adler evidenzia come l’emancipazione femminile avrebbe portato a un aumento non solo quantitativo ma anche qualitativo della criminalità femminile che non sarebbe stata più relegata a reati di minore entità: cosi come le donne erano diventate medici, avvocati e soldati sarebbero divenute anche ladre, truffatrici e terroriste; insomma quando le donne avrebbero raggiunto la parità, quando si sarebbero mascolinizzate anche la commissione dei reati, sarebbe stata alla pari.
Rita Simon sostiene che l’emancipazione offra più possibilità di guadagni e di carriera, sia lecita che illecita. Le donne, quindi, potrebbero facilmente scegliere una via alternativa a una vita normale per soddisfare esigenze di guadagno; ciò spiegherebbe, un progressivo incremento dei reati commessi dalle donne e in particolare quelli di tipo acquisitivo (reati contro la proprietà).
Tuttavia, anche se queste studiose, hanno fatto un passo avanti mostrando maggiore interesse e consapevolezza del problema della devianza femminile, rimangono ancorate ad una logica deterministica, secondo cui l’unico modello culturale e sociale da perseguire è quello maschile.
Le donne, nel corso degli anni, hanno assunto ruoli sempre più importanti all’interno delle organizzazioni criminali, a tal punto che alcune di esse hanno ricoperto ruoli di primi piano, sono divenute vere e proprie boss. In modo particolare nella camorra napoletana. È, tuttavia, nell’ultimo ventennio che esse hanno acquisito una indubbia visibilità, rivelando un universo estremamente fluido e diversificato.
Soffermiamoci ora nell’esaminare le donne di camorra, le donne della ‘ndrangheta e quelle di Cosa Nostra. Siamo ormai lontani dall’immagine di donna esclusa dalle fila regolari della camorra, oggetto di sfruttamento della malavita, strumento di essa, se moglie o figlia di camorrista è strettamente tenuta a custodire i segreti dell’organizzazione: e se dovesse lasciarsi andare a imprudenze, la punizione può essere implacabile, al pari di quella destinata agli uomini del gruppo. La realtà odierna è ben diversa, ci mostra donne in grado di gestire il potere al posto dei mariti o dei fratelli. Possono condividere il comando, prendere decisioni autonomamente, sposarne le regole, o anche aizzarli l’uno contro l’altro. Soprattutto sono capaci di gesti estremi. Anna Vollaro, dell’omonimo clan, per protestare contro il sequestro della sua pizzeria ordinato dal Tribunale di Napoli, si uccise davanti ai poliziotti. In questo tumulto di cambiamenti anche l’uomo ha rivalutato la sua idea della donna incapace di riservatezza e affidabilità; le donne collaboratrici di giustizia, non solo sono pochissime, ma in confronto a certi canarini, sono mute. Lo stesso fenomeno del pentimento ha mostrato come siano più gli uomini a pentirsi mentre le donne si dimostrano strenuamente fedeli ai valori mafiosi, anche dopo l’arresto di mariti o figli. Le donne di camorra muoiono, ma non si pentono mai. Sempre più spesso la camorra si affida alla loro voce ma anche alla loro capacità imprenditoriale, al loro senso pratico e alla loro intraprendenza.
Emergono figure di spicco che si prestano anche a rappresentazioni pericolosamente mitizzate; basti pensare a Pupetta Maresca, moglie e vedova di Pascalone ‘e Nola, o a Rosetta Cutolo, sorella del re della Nuova Camorra Organizzata. In ogni caso si tratta di donne in grado di compiere azioni alla pari dei più feroci boss della camorra. Nella pianificazione delle strategie commerciali e nelle pubbliche relazioni, l’impostazione scelta dalle donne è quasi sempre vincente e, comunque, ha sempre un taglio più innovativo ed efficace. Dunque, le donne di camorra non vivono di luce riflessa, esercitano direttamente la vendetta, si sostituiscono ai boss nella gestione del potere, sono mandanti di omicidi, condividono la leadership con gli uomini della famiglia. Agiscono aggressivamente sul territorio, interiorizzando valori e comportamenti violenti; per essere riconosciute non esitano a una completa omologazione maschile. Sono donne che sanno e che controllano, alimentano e attivano i circuiti relazionali e della comunicazione.
Quanto alla ‘ndrangheta, non si può parlare di matriarcato ma anche qui sono divenute “donne in carriera” ed è sempre più evidente il loro appoggio ai boss. Collaborano con i mariti nelle attività illecite, supportano l’organizzazione e apparentemente non svolgono funzioni di comando o comunque fondamentali alla vita della cosca ma agiscono nell’ombra. Conservano la memoria. Educano i figli alla cultura mafiosa tengono in vita la propria ‘ndrina tutelandone l’onore.
In veste di formatrice pedagogica delle nuove generazioni, la donna diventa custode ed elaboratrice dei codici culturali dell’organizzazione mafiosa. Diventa, difatti, la garante, come afferma Lo Verso, della continuità e dell’identità psichica.
Tutelano “l’onore”, una delle principali virtù del mafioso, che comprende qualità come la generosità, l’altruismo e la grandezza d’animo. In verità tale concezione, come osserva Ombretta Ingrascì, serve da “paravento” ai reali intenti delittuosi. In realtà il concetto d’onore è pervertito comprendendo prevalentemente l’abilità di uccidere, di mantenere i segreti e garantire l’integrità sessuale delle proprie donne (mogli, sorelle, figlie), quindi, nulla a che vedere con l’originaria definizione di onore. Anche in questo caso, la donna ha un ruolo fondamentale poiché attraverso la rettitudine del suo comportamento, specie quello sessuale, conserva e mantiene alto l’onore e la reputazione dell’uomo. Il pentito Antonio Zagari sottolinea l’importanza criminale delle donne nelle famiglie legate alla ‘ndrangheta:
Le regole della ‘Ndrangheta calabrese non contemplano la possibilità di affiliare elementi femmina. Tuttavia se una donna è riconosciuta particolarmente meritevole, può essere associata con il titolo di sorella d’omertà; senza però prestare giuramento di fedeltà come obbligatoriamente previsto per gli uomini; ma difficilmente si riconosce il titolo a chi non è già moglie, figlia, sorella, fidanzata o comunque imparentata con uomini d’onore.
In Cosa Nostra, nonostante la maggiore rigidità del codice, c’è comunque stata un’evoluzione della figura femminile. Negli affari di mafia la donna è ammessa solo in caso di necessità. L’espansione dei traffici ha posto la necessità di trovare manodopera fidata; l’esigenza di riciclare sempre più denaro sporco ha generato un lavoro criminale non necessariamente violento e compatibile con i tratti relazionali e culturali femminili. Come afferma la Di Vincenzo, non vi è dubbio che si tratti di donne che esercitano un potere reale, in grado di “comandare” gli uomini del clan e che dimostrano una notevole determinazione criminale; allo stesso tempo, però, per quanto riescano a raggiungere posizioni di potere, sono strettamente controllate dai capi. Perciò il loro potere è temporaneo e delegato: esse seguono, infatti, le direttive impartite dal carcere e sono costrette ad abbandonare le posizioni acquisite una volta conclusosi il periodo emergenziale di detenzione degli uomini; inoltre, una volta raggiunte posizioni di medio rilievo, non possono aspirare a posizioni più alte.
In sostanza, contraddizioni e ambiguità insite nella condizione femminile, che “avanza” da un lato ma che dimostra arretratezza dall’altro, ci dimostrano, ancora una volta, la capacità della mafia di adattarsi alla modernità mantenendo vivi gli aspetti più tradizionali, sfruttando in questo modo i processi di mutamento della società (O. Ingrasci, 2007). Del processo di emancipazione femminile la mafia si è servita in maniera strumentale, consentendo l’accesso alle attività criminali ad una nuova generazione di donne, più istruite e libere di muoversi rispetto al passato; allo stesso tempo, però, ha negato loro la completa indipendenza fisica, psicologica ed emotiva.
Gaetano Paci sostiene che è sbagliato pensare che le organizzazioni mafiose abbiano avviato una politica di pari opportunità. Esse sono ancora di dominio maschile, nonostante cresca la necessità di risorse femminili: a queste ricorrono solo nel caso in cui gli uomini siano in carcere o latitanti.
In passato era inconcepibile l’idea di sottostare agli ordini di una donna, ma gli associati obbedivano per il rispetto nutrito verso il capomafia, impossibilitato a detenere le redini del clan in prima persona. Negli ultimi anni, però, quest’idea è divenuta sempre meno inconcepibile, e in alcuni casi i membri del clan nutrono una certa stima nei confronti della donna momentaneamente al potere. Accanto a queste donne, si distinguono tante altre meno visibili, che assumono una posizione secondaria ma non per questo meno importante. Si tratta di donne che offrono il loro supporto all’organizzazione criminale, che fanno da vedette, che fungono da intermediarie tra i loro uomini in carcere e il mondo esterno. Notiamo, dunque, che l’universo femminile della camorra è assai variegato e produce configurazioni diverse a seconda del ruolo ricoperto dalle donne nelle gruppi criminali.
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