
Figlio del pugile professionista Otello Abbruciati, Danilo nasce il 4 Ottobre 1944 al Trionfale, quartiere della zona nord di Roma, per poi trasferirsi a Primavalle. Allenato dal padre, da piccolo comincia a praticare il pugilato ma dura poco. Appena maggiorenne, comincia a frequentare un gruppo di ragazzi della “Roma bene” che finisce per diventare una vera e propria “batteria” di rapinatori, ribattezzata dalla stampa la Gang dei Camaleonti (da cui viene il suo soprannome) che tra il 1964 e il 1965 si specializza in furti nelle abitazioni dei ricchi quartieri capitolini. Poco dopo arriva la prima condanna a 4 anni di carcere. Nel 1967 comincia a convivere con Claudia e nel 1970 nasce la loro unica figlia.
Nel periodo passato in carcere, a Milano, Abbruciati conosce il boss della malavita meneghina Francis Turatello con cui stringe un forte legame di amicizia, che sfrutta per entrare in contatto con la Banda dei Marsigliesi di Maffeo Bellicini, Albert Bergamelli e Jacques Berenguer. Operante tra la Francia e Roma, la banda è dedita a rapine, sequestri di persona, traffico di droga, sfruttamento della prostituzione, gestione delle bische clandestine e in quel periodo controlla gran parte dei locali di via Veneto, quella della Dolce Vita . Con i Marsigliesi, commette diversi crimini che gli costano una nuova carcerazione alla fine del 1978.
Tornato libero un anno dopo, a Roma una nuova banda di criminali sta rapidamente prendendo il controllo dei traffici illeciti. Grazie all’incontro con i vecchi amici del quartiere Testaccio, Danilo conosce i capi del nascente gruppo criminale, Enrico De Pedis e Franco Giuseppucci, con i quali comincia a collaborare nello smercio della droga assieme alla sua nuova amante, Fabiola Moretti. In quel periodo Giuseppucci e Abbruciati entrano in contatto con Massimo Carminati, membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari, che gli affida i proventi delle rapine di autofinanziamento in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali l’usura e lo spaccio di droga.
Nonostante le strette regole auto-imposte dagli stessi componenti della Banda della Magliana, il Camaleonte mantiene sempre una certa indipendenza che rispecchia il suo spirito imprenditoriale che lo porta a stringere rapporti con politici corrotti, estremisti di destra e mafiosi del calibro di Pippo Calò, boss palermitano della famiglia di Porta Nuova e punto di riferimento di Cosa Nostra a Roma. Entra in contatto anche col faccendiere Flavio Carboni e grazie al buon rapporto con l’altro boss palermitano Stefano Bontate, porta inoltre in dote alla Banda un prezioso canale di rifornimento degli stupefacenti.
Aveva amicizie che gli garantivano l’impunità nei processi, e poi otteneva appalti, soldi: quelli del Testaccio, grazie a lui, avevano comprato o preso in gestione anche la Casina Valadier, uno dei ristoranti più “in” della capitale. Poi Renatino [De Pedis, ndr] prese la discoteca Jackie O’ con Enrico Nicoletti … Non so quanta roba hanno preso. Tanta sicuramente. Quando noi della Magliana siamo stati arrestati loro hanno fatto un salto economico spaventoso, acquisendo immobili e società per decine di miliardi. I testaccini avevano cominciato a investire negli anni Settanta-Ottanta, con Flavio Carboni, in Sardegna.
(Maurizio Abbatino)
Oltre al fiuto per gli affari, il Camaleonte è anche un killer senza scrupoli che agisce sia per regolare interessi personali che su commissione, pagato da terzi. Il 3 Febbraio 1981, periodo in cui la resa dei conti all’interno della Banda inizia a prendere la forma di una vera e propria mattanza, partecipa all’esecuzione di Antonio Leccese, cognato del boss Nicolino Selis, che viene giustiziato da Abbruciati e Antonio Mancini per strada, mentre a bordo della sua A112 sta facendo ritorno a casa dopo aver firmato la presenza al commissariato di zona. Della faida interna è vittima anche Domenico Balducci, detto Memmo er Cravattaro, che trattiene per sé una parte del denaro (150 milioni) destinato a Pippo Calò, firmando così la sua condanna a morte che avviene per mano di Abbruciati (accompagnato questa volta da Enrico De Pedis e Raffaele Pernasetti), la sera del 16 Ottobre 1981, mentre sta rincasando in motorino nella sua lussuosa villa all’Aventino. L’omicidio provoca un acceso litigio tra Abbruciati e Abbatino, il quale rinfaccia al testaccino di perseguire scopi personali al di fuori dell’interesse comune del gruppo. In pratica, ai testaccini viene rivolta l’accusa di essere dei traditori che mettono in pericolo i compagni unicamente per proteggere gli affari dei Corleonesi. Il 25 novembre, quando la polizia scopre l’arsenale della Banda nello scantinato del Ministero della sanità all’EUR, il custode chiama in causa Abbatino e Abbruciati, salvo poi ritrattare.
Un profilo criminale di grande spessore quello di Danilo Abbruciati, rispettato e temuto dagli altri malavitosi che in alcuni casi hanno la sventura di trovarlo sul proprio cammino. Come accade a Roberto Belardinelli, detto Bebo, a cui il Camaleonte spara durante una banale rissa in un locale notturno capitolino e che, come spiega Fabiola Moretti interrogata dal giudice istruttore, inizia una guerra personale contro Abbruciati:
Bebo sparò raffiche di mitra contro le auto parcheggiate in via dei Ponziani. Infine sequestrò Oscaretto Meschino, per farsi dire, a suon di botte, dove potesse trovare Danilo. Infine una mattina che Danilo doveva incontrare Umbertino Cappellari sulla via del Mare dove, all’altezza della deviazione per Fiumicino, questi aveva un magazzino di lampadari, Bebo Belardinelli si trovò sul posto e uccise Umbertino, sotto gli occhi del figlio Pino, tossicodipendente: per sua fortuna Danilo era arrivato in ritardo all’appuntamento, sicché al suo posto morì il Cappellari.
Un altro scontro avviene con Massimo Barbieri a causa di un festino organizzato dall’uomo con la madre della figlia di Abbruciati e con la sorella: il Camaleonte non accetta questa mancanza di rispetto e cerca di vendicarsi ma, tradito dalla pistola, inceppatasi all’ultimo momento, lo pesta a sangue con il calcio dell’arma. Dal canto suo, Barbieri cerca di vendicarsi attentando alla vita di Abbruciati con un colpo di pistola alla tempia: il proiettile, che il boss decide di far rimuovere solo a vendetta compiuta, però non lo uccide e non lascia conseguenze gravi, segnando tuttavia la condanna a morte dell’attentatore. Come se non bastasse, Barbieri si rende responsabile del rapimento e delle sevizie a danno di Fabiola Moretti.
La tanto attesa occasione per consumare la vendetta viene offerta ai Testaccini da un compare di Barbieri, Angelo Angelotti, che sfrutta i dissapori dell’ex amico con gli esponenti della Banda per sbarazzarsi di lui, in quanto segretamente innamorato della moglie. Attirato con una scusa a un festino presso un’abitazione di Ladispoli, il Barbieri viene narcotizzato e legato per poi essere torturato per ore con un coltello da Abbruciati e De Pedis. Una volta ucciso, il suo corpo viene carbonizzato e abbandonato nella campagna romana. Il 18 Gennaio 1982 il suo cadavere viene ritrovato in una discarica vicino a Ladispoli in condizioni raccapriccianti: bruciato, un occhio perforato da una lama, diversi tagli sul viso, il naso spaccato, un proiettile nel cranio e un altro al centro della fronte.
Il carisma e l’intelligenza di questo bandito lo spingono a stringere alleanze anche con neofascisti ed esponenti dei servizi segreti, che in più di una occasione, in cambio dei suoi servizi, gli offrono protezione e impunità. Proprio un intreccio di interessi economici tra Banda della Magliana, Servizi deviati, politica corrotta e mafia sono alla base del tentato omicidio di Roberto Rosone, vice presidente del Banco Ambrosiano, durante il quale Danilo Abbruciati perde la vita il 27 Aprile del 1982.
Su richiesta di Ernesto Diotallevi, altro esponente di spicco della Banda, il Camaleonte arriva a Milano in treno insieme a Bruno Nieddu per uccidere Rosone, ma non riesce a portare a termine il suo intento a causa di un guasto alla sua pistola. Dopo essere riuscito solo a gambizzarlo, infatti, viene ferito a morte da una guardia giurata con un colpo alle spalle, mentre scappa a bordo di una motocicletta guidata dal suo complice. Nella sua giacca, i poliziotti trovano una scatoletta di fiammiferi con appuntato un numero di telefono intestato a Mirella Fiorani, cognata di Diotallevi.
Quando mi informarono, andai da Renatino e da Raffaele Pernasetti a chiedere spiegazioni. Volevo sapere perché si fossero mossi senza comunicare la decisione al resto della banda. Non era nelle nostre regole: tutto andava stabilito insieme. Renatino si giustificò dicendo che Danilo aveva agito anche a loro insaputa, che aveva ricevuto cinquanta milioni di lire per eseguire l’attentato. La spiegazione, ricordo, mi lasciò alquanto perplesso perché, pur essendo avido, Danilo non si sarebbe mai fatto usare come semplice killer.
(Maurizio Abbatino)
La notizia della sua morte coglie di sorpresa sia gli altri membri della Banda che gli stessi investigatori che per molto tempo si interrogano sulle ragioni che abbiano portato Abbruciati a Milano, così lontano dai suoi interessi romani, da mero sicario. Una stranezza, quella che sia andato personalmente a eseguire un “lavoro” così rischioso per quanto ben remunerato, che non verrà mai spiegata fino in fondo dalle inchieste che seguiranno. Come mandanti dell’agguato, vengono prima condannati e poi assolti nel 1999 Diotallevi e Carboni mentre il suo complice Nieddu viene condannato a 10 anni e 6 mesi per tentato omicidio.
La figura di Abbruciati ha ispirato il personaggio di Nembo Kid di cui si parla nel libro Romanzo criminale scritto nel 2002 da Giancarlo De Cataldo, che narra la storia della Banda della Magliana. Nell’omonima serie televisiva, diretta da Stefano Sollima, il suo personaggio è stato interpretato dall’attore Edoardo Leo, mentre nel film I banchieri di Dio – Il caso Calvi, diretto da Giuseppe Ferrara nel 2002, dall’attore romano Bruno Bilotta.
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