
Quando lo schiaffo è caparra di morte! Nel dicembre del 1953 i due fratelli piccoli dei due assassini erano stati schiaffeggiati da Salvatore Morza, l’uomo contro il quale erano diretti i colpi che uccisero per “aberratio ictus” Armando Diana che a lui si accompagnava.
Una sera del dicembre del 1953, Salvatore Morza ebbe a prendere a schiaffi due ragazzi, Arturo Del Vecchio e Giuseppe Diana, i quali avevano recato licenziosa molestia alla giovane Giuseppina Cantelli, sua parente, che si trovava con lui nello stesso tram. I due non avevano reagito, e tali parole erano uscite dalla loro bocca:
Hai schiaffeggiato noi che siamo ragazzi, ma te la faremo vedere con i grandi!
S’invero la minaccia non fu vana perché, cinque mesi dopo, essendosi il Morza – che era di Casal di Principe – recato a San Cipriano d’Aversa, il giorno della festa del 1° Maggio 1954, fu affrontato da Eugenio Del Vecchio e Cipriano Diana, fratelli dei due ragazzi schiaffeggiati, con quel tono di fredda calma e apparente correttezza che in tali casi equivale a vera e propria sfida.


Il Morza, per nulla intimorito, rispose risentitamente e addirittura venendo alle mani con il Del Vecchio ma, separati da un paciere, tale Raffaele Variello, a quel punto preferì battere in ritirata verso una vicina bottega di barbiere, mentre contro di lui venivano esplosi dai suoi avversari tre colpi di pistola. Di questi, due andarono a vuoto mentre un terzo raggiunse per errore il giovane Armando Diana, che malauguratamente quel giorno si trovava in compagnia del Morza ma era del tutto estraneo alla questione. Il povero giovane decedette poche ore dopo. La mattina del 1° Maggio 1954 – come detto – in una via del centro abitato il giovane Armando Diana venne attinto per errore al quadrante inferiore sinistro dell’addome da due colpi di pistola diretti, con un terzo andato a vuoto, contro il suo compagno e latitante Salvatore Morza, lestamente rifugiatosi nella vicina bottega del barbiere Agostino Noviello.
Dalle pronte indagini esperite, risultò confermata la versione secondo la quale i due erano venuti a San Cipriano, dal natio e vicino Comune di Casal di Principe, perché il Morza – cinque mesi prima in paese – aveva schiaffeggiato due giovinastri, fratelli minori del Diana e del Del Vecchio, per averli sorpresi a molestare, con parole e atti sconci, una sua cuginetta e prossima cognata. Era venuto, immediatamente prima degli spari, a colluttazione col Del Vecchio, troncata dall’intervento di tale Raffele Noviello; che, subito dopo, fatto segno di tre colpi, di cui il terzo andato a configgersi a 20 cm. da terra nello stipite della porta della vicina bottega del barbiere Agostino Noviello, erasi ivi rifugiato.
Gli autori dei colpi vennero individuati nei cugini Diana e Del Vecchio. Secondo la versione dei carabinieri, il Morza, mentre passeggiava con l’amico, sarebbe stato affrontato – pistola in pugno – da entrambi i cugini, schiaffeggiato e fatto segno, ad opera del Cipriano Diana e mentre si rifugiava nella bottega, a un primo colpo di pistola. Poi i due cugini, imbestialiti, avrebbero sfogato la loro ira contro Armando Diana, innocuo spettatore invano implorante pietà e misericordia, sparandogli contro un colpo ciascuno. Dandosi poi, pistole in pugno, alla fuga.
Secondo un’altra versione, emergente dagli atti illegalmente raccolti dal Brigadiere dei carabinieri Aniello Romanucci (incaricato dell’esecuzione del mandato di cattura, eseguito a Napoli 15 giorni dopo il delitto) e consistenti nell’interrogatorio dei catturati Del Vecchio e Diana e nelle dichiarazioni dei testi da loro indotti, a sparare sarebbe stato, con le note conseguenze, il solo Cipriano Diana, sopraggiunto solo allora per difendere il cugino Del Vecchio che, dopo essere venuto a colluttazione col Morza, sarebbe stato posto da costui, dopo l’intervento del Raffaele Noviello, in una situazione di pericolo, per avergli l’altro puntato una pistola: donde la tesi della legittima difesa per il Diana e dell’estraneità del Del Vecchio. Tesi, codesta, disattesa con serrato argomentare, come artificiosa e preordinata durante la latitanza, dai giudici di merito.
Questi, negata fede ai testi esaminati dal Romanucci per ragioni tratte dal loro ambiguo comportamento e dalle gravi contraddizioni, fondandosi sulle prime dichiarazioni di Noviello e di altri testi nell’imminenza del fatto e svalutando le successive modifiche di esse, come dovute a compiacenza a favore dei compaesani imputati, ritennero che i due cugini, considerando come una offesa sanguinosa gli schiaffi somministrati dal Morza cinque mesi prima ai fratelli minori e decisi a vendicarsi – secondo la costumanza locale – in modo clamoroso ed esemplare (con più sonori ceffoni, all’occorrenza con le armi), da tempo attendessero l’occasione propizia per mandare a effetto tal loro divisamento. E che, offerta loro inopinatamente tale occasione dallo stesso Morza, assieme lo avessero affrontato e, dopo la colluttazione ingaggiata dal Del Vecchio e troncata dal Raffaele Noviello, entrambi avessero sparato contro di lui nell’atto in cui riparava nella vicina bottega, attingendo invece per errore il malcapitato Armando Diana.
Venne inoltre accuratamente confutata, come inesatta ed inattendibile, la tesi secondo la quale la stessa vittima, ormai agonizzante, avrebbe indicato il solo Diana quale autore degli spari. Il concorso del Del Vecchio, però, venne affermato in base alla prima dichiarazione di Raffaele Noviello, che additava in lui l’autore del primo colpo di pistola e all’accertata fuga dei due con le pistole in pugno.


Si trattava di apprezzamenti di fatto che, per l’esauriente esame e il rigoroso vaglio critico di tutte le risultanze processuali – generiche e specifiche – e per la linearità logica del ragionamento, esulavano dal sindacato di mera legittimità. Pertanto, “la correità del Del Vecchio – scrisse Angelo Lerro, giudice istruttore, nella sentenza di rinvio a giudizio – è congruamente motivata”.
Correttamente, secondo un criterio ormai pacifico, venne desunto l’“animus occidendi” dalla causale, ritenuta adeguata in rapporto all’ambiante e ai soggetti, e dalle modalità dell’azione: arma micidiale, reiterazione dei colpi, regione attinta, breve distanza tra gli offensori e due giovani di Casale, l’uno preso di mira e l’altro attinto. Non si comprende come tale criterio, in mancanza di apprezzabili argomenti, possa venir meno (come sostenne la difesa degli imputati in sede di appello) in tema di reato aberrante allorché, come nella specie, la persona offesa per errore e la persona che si voleva offendere siano assieme e sullo stesso piano stradale.
Né è esatto che la Corte di merito (la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, innanzi alla quale furono trascinati gli imputati del terribile delitto) non abbia tenuto conto dell’inclinazione del tragitto del proiettile andato a vuoto e conficcatosi nello stipite della porta del barbiere a soli 20 cm da terra. Infatti, la sentenza si sofferma su tale elemento e anziché desumerne – come si sosteneva – l’assenza della volontà omicida, rileva che, a parte il rilievo che gli altri due proiettili attinsero la vittima in regione vitale, esso è dovuto al fatto che lo sparatore diresse il colpo stesso contro il Morza nell’atto in cui questi scendeva nella sottostante bottega del barbiere, a livello inferiore al piano stradale; donde un argomento di conferma e non di esclusione del proposito truce.
Del pari correttamente è stata negata la provocazione sia per l’incidente remoto sia per il comportamento del Morza in quel giorno. In vero, è stata ritenuta legittima la ragione – concretatasi in sonanti ceffoni – del Morza contro i molestatori della giovinetta sua cuginetta, non potendo egli astenersi dal porre fine, in modo energico ed efficace senza sottrarsi ad un dovere di solidarietà umana e parentale, a un’azione riprovevole e indegna, lesiva dell’onore di una fanciulla a lui affidata.
Né avrebbero potuto i secondi giudici ritenere non provocatoria e allarmante la richiesta di spiegazioni fatta, anche se in tono apparentemente urbano, dal Del Vecchio al Morza, per gli schiaffi da lui somministrati ai due giovinastri: richiesta, in effetti, come ritenuta, importuna e allarmante per il tempo trascorso per la causale dell’incidente e per la ben nota mentalità ambientale di vendicare gli schiaffi anche col sangue. E provocatoria per la ravvisata legittimità della reazione del Morza contro i due giovinastri. Pertanto, con retto criterio è stato ritenuto che quel tragico mattino a provocare l’altro fosse stato il Del Vecchio con detta richiesta, e non il Morza, venendo a colluttazione con lui.
VICENDA GIUDIZIARIA
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino; Giudice a latere, Renato Mastrocinque; Pubblico Ministero, Gennaro Damiani), con sentenza del 6 Febbraio 1956, condannò Cipriano Diana ed Eugenio Del Vecchio alla pena di anni 18 di reclusione ciascuno con la concessione delle attenuanti generiche per la loro giovane età, la loro condizione di incensurati e l’ambiente sociale cui appartenevano, che di certo esercitava un deleterio influsso specie sui giovani, vittime più di ogni altro dei tristi pregiudizi locali.

La decisione, però, fu impugnata da tutti. Accusa, pubblica e privata, e dagli imputati. In sede di Appello e di Cassazione, si sostenne la mancata concessione di ulteriori attenuanti, dell’eccessiva pena, sulla interpretazione del delitto per “aberratio ictus”, della provocazione. Salvatore Morza, infatti, obiettivo dei colpi sparati che uccisero per errore Armando Diana, non solo era pregiudicato ma, in quel periodo, era addirittura “latitante” e ricercato da polizia e carabinieri ed ebbe l’ardire di andare armato in San Cipriano e schiaffeggiare i giovane.
Questa – sostennero i difensori – non è provocazione?
Nonostante ogni sforzo difensivo (furono impegnati i più grandi penalisti dell’epoca), il verdetto venne confermato in Appello e Cassazione. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Giuseppe Sotgiu, Alfonso Raffone, Carlo Cipullo, Nicola Foschini, Ettore Botti, Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini e Alfredo De Marsico.




Fonte: Archivio di Stato di Caserta
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