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Omicidio Salvatore Carnevale: un delitto rimasto senza colpevole

11 Maggio 2016 da Webmaster Lascia un commento

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Di Ferdinando Terlizzi

Venerdì 13 maggio, alle ore 15.00, presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” in Napoli, in occasione della inaugurazione del Corso di Balistica Forense e Tiro, organizzato dal Formed di Caserta, in convenzione con la suddetta Università, Giuseppe Garofalo, penalista, scrittore e storico, terrà una “lectio magistralis” su un processo celebratosi per legittima suspicione nel 1961, presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Fu il primo processo in cui la perizia balistica rappresentò un dato essenziale ai fini  dell’accertamento delle responsabilità.  In realtà, tre anni di dibattimenti, imperniati su controverse perizie balistiche, non  chiarirono  se i proiettili trovati sul luogo dell’uccisione furono sparati dalle armi degli imputati. Basterà ricordare quale fu lo scontro degli  “esperti” . Infatti, uno dei punti centrali su cui si svolgeva la lotta fra i difensori e i legali della parte civile era questo: se i bossoli trovati vicino al cadavere di Salvatore Carnevale appartenevano o no alle cartucce sparate da otto fucili sequestrati durante le indagini, perché di proprietà di alcuni imputati.

La prima perizia, fatta però solo su quattro fucili (gli altri non erano stati ancora trovati), fatta dal prof. Ideale Del Carpio, dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo e da un ufficiale di artiglieria, Paolo Cutitta, lo escluse.

La seconda e la terza perizia, (richieste espressamente dall’avv. Giuseppe Garofalo) compiute dal tenente colonnello Giuseppe Brundo Cateno, pure del servizio tecnico di Artiglieria e direttore pirotecnico di Capua, stabilirono che quattro di quei bossoli erano stati esplosi dai fucili sequestrati.

Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale

La quarta perizia, compiuta da tre esperti di “chiara fama” tutti del servizio tecnico di Artiglieria, il maggiore generale Roberto Boragine, il tenente colonnello Vincenzo Vecchione, e il maggiore Fulvio Pettirossi, dette pienamente torto al direttore del pirotecnico, affermando che nessuno di quei bossoli era mai stato toccato dai percussori delle otto armi da caccia (nel frattempo erano stati sequestrati anche gli altri quattro fucili).

Fu  un vero e proprio processo alla mafia e non solo il processo agli assassini. Un delitto efferato, rimasto impunito. Due colpi alla testa ed uno in bocca. Così muore Salvatore Carnevale, sindacalista, socialista, vicino a una cava di pietra. Quel cervello non deve più funzionare, quella bocca non deve più parlare.

E’ il 6 marzo 1955,  a Sciara in Sicilia, Carnevale aveva organizzato i contadini e occupato le terre incolte. Ora lavora nella cava, undici ore al giorno, per lui niente diritti. Organizza uno sciopero, un successo. Lo minacciano, non cede. Tre giorni dopo l’ammazzano, perché chi deve capire capisca.

Questa è la storia di un processo-farsa, con i testimoni che fanno i nomi dei mafiosi e alla fine non vengono creduti. Uno di loro ritratta, viene messo in carcere. Ma nella stessa cella degli imputati. E la sua memoria svanisce.  Il processo che ne seguì fu un parterre sul quale si avvicendarono nomi importanti della storia del nostro Paese. Sandro Pertini, (poi nominato Presidente della Repubblica), in difesa di Francesca Serio, madre del giovane assassinato barbaramente; Giovanni Leone, (altro Presidente della Repubblica) in difesa di un imputato.

Gli imputati nel gabbione

Fu il magistrato  Pietro Scaglione (che sarà poi assassinato da Luciano Liggio nel 1971) a chiedere il rinvio a giudizio dei quattro “campieri” per l’omicidio del sindacalista.

Lo scrittore Carlo Levi,  nel suo  libro Le parole sono pietre, descrisse come una donna “di bellezza dura, asciutta, violenta, opaca, come una pietra, spietata, apparentemente disumana”, Francesca Serio, la madre coraggio che – per la prima volta – sfidò la mafia.

Nel 1962, Paolo e Vittorio Taviani dalla vicenda realizzarono  il film Un uomo da briciare, con Gian Maria Volontè, Marina Malfatti e Turi Ferro. Premiato dalla critica alla Mostra di Venezia.

L’avv. Alfredo De Marsico, alla richiesta dei quattro ergastoli, pronunciò un’arringa di 4 ore in difesa degli imputati esordendo con queste parole:

Signori della Corte, voi parlate con una persona che è stata ministro della Giustizia e poi condannata a morte in contumacia.

A Santa Maria Capua Vetere, per la parte civile anche l’avv. Giuseppe Garofalo, su personale sollecitazione di Pietro Nenni, allora leader del Partito Socialista. In appello la pubblica accusa fu sostenuta dal famigerato Roberto Angelone, mentre in Cassazione (molto criticato per le sue parole) dal Procuratore Generale Tirro Parlatore.

La sentenza della Corte di Assise di Appello di Napoli “stracciò” letteralmente quella di primo grado, assolvendo tutti gli imputati. Un delitto, insomma che – con le stesse prove – merita a S. Maria C.V. l’ergastolo e nello stesso tempo a Napoli l’assoluzione.

Questa sembra essere una delle grandi contraddizioni della giustizia in Italia. La Corte di Assise di primo grado fu presieduta da Prisco Palmiero, giudice a latere Giulio Tavassi, Pubblico Ministero, Nicola Damiani.

All’ergastolo furono condannati per l’assassinio del sindacalista: Giorgio Panzeca, Luigi Tardibuono, (morto nel carcere di Santa Maria perché sofferente di cuore,  qualche mese prima del giudizio di appello: 1963), Antonino Mangiafridda e Giovanni Di Bella. 

Nei tre gradi di giudizio furono inoltre impegnati gli avvocati: Antonio Schettino, Ciro Maffuccini, Giuseppe Cordone, Ettore Botti, Carlo Cipullo, Salvatore Mornino, Giuseppe Di Giovanni, Francesco Porzio, Giovanni Porzio, Pompeo Rendina, Lelio Basso, Francesco Taormina, Antonino Sorge e Clemente La Porta.

© Riproduzione riservata

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