
La storia di Silvia Da Pont è una di quelle storie quasi dimenticate, una di quelle storie i cui protagonisti sembrerebbero usciti dalla penna di Dino Buzzati, se non fosse che la storia è tristemente vera e il finale tragico.
Silvia Da Pont, ragazzona alta e robusta di 21 anni, nasce da una famiglia di poveri contadini a Cesiomaggiore in provincia di Belluno. Trova lavoro a Busto Arsizio presso la famiglia Nimmo, è benvoluta e trattata con rispetto. Il capofamiglia, dirigente di una compagnia aerea, guadagna tanto da poterle dare uno stipendio discreto ed una sistemazione dignitosa, nonostante negli anni del dopoguerra le domestiche in genere fossero pagate con pochi spiccioli e sistemate nei sottoscala.
Il signor Nimmo ha ricevuto da poco una promozione e tutta la famiglia dovrà tasferirsi a Roma, sua moglie Adele però non vuole perdere una ragazza educata e in gamba come Silvia e le propone di trasferirsi con loro. Silvia accetta di buon grado, non le sembra vero di andare a vivere nella Capitale, una città che sta rinascendo e sta diventando la mecca del cinema. Prima di partire però, la ragazza trascorre una ventina di giorni a casa della sua famiglia che non vede da un po’.
7 Settembre 1951: Silvia è in procinto di partire, esce di casa per una commissione, passano le ore ma non fa ritorno a casa. I Nimmo presentano quindi una denuncia di scomparsa. Viene appurato che la donna non ha chiamato né scritto alla madre, la casa e la cantina vengono perlustrate, ma non emerge nulla. Viene interrogata una sua amica la quale dichiara che Silvia negli ultimi tempi era molto triste e nervosa. Si fa strada l’ipotesi che possa essere scappata con qualche spasimante, ma qualcosa non quadra: i bagagli con i suoi abiti e i suoi risparmi (40mila lire) sono rimasti nella sua camera. Come può essere scappata in ciabatte e grembiule?
I primi di ottobre la sorella di Silvia, Maria Da Pont, bambinaia a Zurigo, si reca a Busto Arsizio e inizia a indagare. Perlustra la casa e la cantina insieme ai Nimmo, ma ancora una volta non emerge nulla. L’amica presso la quale alloggia le racconta di uno strano sogno: Silvia, vestita di bianco che stringe un mazzo di fiori, le dice:
Perché tutti mi cercano quando non sono mai uscita da quella casa?
Il caso cade nel dimenticatoio e la famiglia Nimmo, nonostante non l’abbia mai dimenticata, continua con la sua vita e si trasferisce a Roma. Il 28 ottobre ritornano a Busto Arsizio per completare il trasloco. Una volta in cantina, i bambini trovano un albero di Natale: vogliono portarlo con loro. A quel punto i Nimmo lo spostano e fanno una scoperta terrificante: dietro ai rami e con la gonna tirata sul ventre, giace il cadavere di Silvia: è cereo, non emana cattivo odore e pesa circa 40 chili in meno del suo peso iniziale.

L’autopsia rivela che la ragazza è morta di inedia e che era illibata. Si vaglia quindi l’ipotesi del suicidio: la ragazza era depressa e si sarebbe lasciata morire, ma non regge. Come avrebbe fatto Silvia a incastrarsi sotto ai rami?
Il Capitano dei carabinieri Angelo Mongelli vuole vederci chiaro: la villetta è bifamiliare e l’altra parte è occupata da Carlo Candiani, settantenne ex rappresentante del settore tessile, nonno di due nipotini, vedovo benestante e rispettato con la passione per la farmacologia. Candiani passa molto del suo tempo a imbottigliare decotti e distillati fatti da lui e si vanta di essere guarito dal diabete grazie ad un suo preparato a base di erbe. Durante la perlustrazione è una cassa impolverata, che l’anziano dichiara di aver spostato da poco, ad attirare l’attenzione dei carabinieri.
Interrogato per ore, alla fine confessa: avrebbe incontrato Silvia mentre saliva le scale, la ragazza si sarebbe sentita male ed avrebbe provato inutilmente a rianimarla, quindi l’avrebbe portata in casa sua e, una volta deceduta, con l’aiuto di un amico la avrebbe trasportata in cantina nella cassa. Una versione che non convince assolutamente: Silvia era forte, in ottima salute e non aveva patologie tali da giustificare un coma di 44 giorni. E poi perché non chiedere aiuto o chiamare un medico?
Sottoposto a nuovi interrogatori finalmente fornisce la versione definitiva: Candiani si sarebbe invaghito di Silvia e il pensiero di non vederla più lo avrebbe indotto a somministrarle un misto di vino e laudano che l’avrebbe tenuta in una sorta di animazione sospesa per diciotto giorni, durante i quali l’avrebbe alimentata con cucchiaini di latte e vino. Dopo essere morta, sarebbe stata trasportata in cantina. Viene sentito anche Vittorio Tosi, l’amico che aveva aiutato l’uomo a trasportare la cassa, ma poco dopo sparisce senza lasciare tracce, forse buttandosi nel Ticino per il rimorso e la vergogna.

Nell’aprile 1953 inizia il processo, il Candiani ritratta affermando che le confessioni gli sono state estorte dai carabinieri. I suoi avvocati sostengono che Silvia fosse una ragazza di dubbia moralità, malata di epilessia e che si sia suicidata. Carlo Candiani viene condannato a 25 anni di reclusione.
Gli avvocati ricorrono in Appello e il capo d’imputazione passa da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. Secondo la difesa, l’uomo non avrebbe voluto uccidere la ragazza e la sua morte sarebbe stata causata dalle dosi di narcotico somministrate per errore. La condanna viene ridotta a 14 anni e di Silvia Da Pont non si parla più fino all’agosto del 1957, quando Carlo Candiani muore per un collasso cardiaco nel carcere di Parma in cui sta scontando la pena.
L’orrore celato dietro un’apparente normalità, un orco che non voleva una relazione con la povera Silvia, ma solo una bambola inerme da contemplare e su cui sfogare le sue perverse pulsioni.
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