
Di Maria Teresa Mannarino
É il 9 Maggio 1997, sono le 11.35 circa di un mattino qualunque ma, all’improvviso, si sente il rumore di uno sparo. Una brillante studentessa di giurisprudenza, mentre passeggia con un’amica, Jolanda Ricci, lungo uno dei vialetti dell’università “La Sapienza” di Roma, si accascia e cade a terra. La studentessa si chiama Marta Russo, ha solo 22 anni, e quel maledetto mattino un proiettile calibro 22, sparato a distanza, le perfora l’encefalo ponendo fine, cinque giorni più tardi, più precisamente alle 22.00 del 13 Maggio 1997, alla sua vita e alla sua carriera universitaria.
“Chi ha sparato a Marta Russo?”, sono questi i principali titoli dei giornali dell’epoca. L’inchiesta viene affidata al pubblico ministero Carlo Lasperanza che può contare su un pool di 80 investigatori, tra squadra mobile, scientifica e Digos. Molte le teorie sul delitto: dallo scambio di persona all’agguato di matrice terroristica. Ipotesi tante per una sola verità. Gli inquirenti passano al setaccio la vita privata di Marta, raccolgono testimonianze ma senza trovare alcun indizio. La vita privata di Marta è senza ombre. La vita di una studentessa che si divide tra università e fidanzato.
Inizialmente, si punta il dito contro la ditta Pul.tra (nei cui locali vengono trovate armi giocattolo modificate) e si ritiene che il colpo sia stato esploso dal bagno della facoltà di Statistica. Sembra il classico “delitto perfetto” finché il 21 maggio sul davanzale dell’Aula Assistenti n. 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto, la polizia scientifica trova una particella di “ferro – bario – antimonio”. Gli investigatori ne sono certi: l’assassino proprio da quella finestra ha esploso quel colpo e ha raccolto il bossolo per poi darsi alla fuga. Inizia, dunque, da quel giorno la ricerca del probabile killer della studentessa. Vengono ascoltati diversi testimoni ma è la figlia del professor Nicolò Lipari, Maria Chiara Lipari, a dare un contributo importante alle indagini parlando di una certa “aria strana” che si respirava all’interno di quell’aula e facendo i nomi del professor Bruno Romano (poi scagionato da ogni accusa), Gabriella Alletto (all’epoca impiegata), Francesco Liparota (assolto, poi, dall’accusa di favoreggiamento) e di due assistenti universitari, Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone.
Proprio la Alletto diventa la testimone-chiave che, dopo numerosi interrogatori, finisce per accusare Scattone e Ferraro. I due vengono incriminati per omicidio volontario in concorso e successivamente condannati in primo grado per omicidio colposo e favoreggiamento, perché secondo le ricostruzioni il colpo sarebbe partito “per errore” e “per gioco”. Al processo di Appello, il 13 Novembre del 2000, una nuova perizia sulla finestra dell’Aula 6 stabilisce che la famosa “particella” non è riconducibile all’innesco del proiettile che ha colpito Marta Russo, ma questo non basta a scagionare da ogni accusa i principali imputati. Alla fine, dopo 6 anni di processi, i due assistenti universitari vengono condannati in via definitiva dalla Cassazione: Scattone a 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo aggravato, Ferraro a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento.
Nonostante le condanne, l’omicidio della Sapienza si presenta come uno dei più controversi casi di cronaca nera italiana. Controverso perché l’impianto accusatorio si regge sia su testimoni dai ricordi “incerti” sia sull’esistenza di quella “particella”, che come abbiamo visto non è neanche riconducibile all’innesco del proiettile, ragion per cui il colpo non può essere partito da quella finestra. Quindi, da dove è partito lo sparo? Inoltre, pistola e bossolo non sono mai stata ritrovati. Che fine ha fatto l’arma del delitto? Perché non è stata mai trovata?
Anche il movente appare inconsistente: si può uccidere per gioco? Si può far entrare, indisturbati, una pistola in un ateneo ed usarla per mostrare ad un amico di avere una mira perfetta? Ma, soprattutto, perché mentre Marta era agonizzante, già si parlava di “omicidio per errore di mira”? Sembra quasi che gli inquirenti si siano innamorati di una tesi accusatoria ed abbiano voluto crederci fino in fondo. Insomma, tanti interrogativi ma un’unica certezza: Marta Russo è morta. Così come sono morti i suoi sogni di diventare magistrato e la verità che si nasconde dietro questo terribile delitto.
Alla giovane studentessa è stata concessa la laurea alla memoria alla presenza del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, inoltre è stata apposta una targa in sua memoria all’interno dell’ateneo e le sono state intitolate alcune aule.
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