
Giuseppe “Pippo” Calò nasce a Palermo il 30 Settembre 1931, lavora come commesso in un negozio di tessuti e in seguito come macellaio e barista. All’età di 18 anni insegue e ferisce a colpi di pistola l’assassino del padre, reato per il quale finisce in carcere per la prima volta. A 23 anni viene affiliato alla famiglia mafiosa di Porta Nuova, il padrino che garantisce per lui è il boss Tommaso Buscetta.
Nel 1963, dopo la morte del boss Gaetano Filippone, viene scelto come nuovo capofamiglia e poco dopo viene denunciato per associazione a delinquere insieme a Gerlando Alberti e altri mafiosi. In questo periodo è il principale fiancheggiatore del boss Luciano Liggio e del suo vice Salvatore Riina: secondo le concordi testimonianze di Tommaso Buscetta e Leonardo Vitale, l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione sarebbe stato eseguito dagli stessi Liggio e Riina nel quartiere Danisinni, nel territorio della cosca di Calò. Quest’ultimo, con i suoi uomini, avrebbe partecipato anche al sequestro del costruttore Luciano Cassina, ordinato da Riina. Arrestato per il sequestro, viene rilasciato, in libertà provvisoria, dopo appena 20 giorni di detenzione.
Nel 1973 viene accusato da Leonardo Vitale di diversi reati, dall’estorsione all’omicidio, ed è costretto a darsi alla latitanza. Nel 1974 viene ricostituita la Commissione di Cosa nostra e Calò entra a farne parte come capo del mandamento di Porta Nuova, che comprende le famiglie di Borgo Vecchio, Palermo centro e Porta Nuova.
Secondo la testimonianza di Giovanni Brusca, inizialmente Calò è in ottimi rapporti con Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, ma si sarebbe allontanato da loro nel 1980, quando senza il suo permesso uccidono Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica, all’interno del suo territorio. Per questo si avvicina ai Corleonesi di Totò Riina cercando di convincere Buscetta a passare dalla loro parte ma con scarso successo.
All’inizio degli anni Settanta, con la falsa identità di Mario Aglialoro si trasferisce a Roma e stringe rapporti con la Banda della Magliana, con le frange eversive dell’estrema destra e con pezzi grossi dell’alta finanza. Secondo la testimonianza di Maurizio Abbatino, uno dei capi storici della Banda, in un primo momento il mafioso si sarebbe occupato del gioco clandestino e poi, col benestare del boss Stefano Bontate, della distribuzione dell’eroina ai gruppi malavitosi di Testaccio, della Magliana e di Ostia-Acilia. Dopo l’omicidio di Bontate da parte dei Corleonesi, il traffico di eroina dalla Sicilia a Roma continua ma resta solo nelle sue mani.
Il grosso degli investimenti di don Pippo riguardano il mercato immobiliare: servendosi di costruttori-prestanome, dà vita a diverse speculazioni edilizie in Sardegna insieme a due faccendieri appartenenti alla Banda della Magliana, Domenico Balducci e Ernesto Diotallevi, e con l’aiuto determinante di Flavio Carboni. Quest’ultimo, grazie ai suoi legami con politica e massoneria, riesce a procurare facilmente licenze, autorizzazioni e nuovi soci in affari: l’obiettivo del gruppo, infatti, è quello di riciclare il denaro proveniente dai sequestri di persona e dal traffico di eroina.
Calò cerca anche di accaparrarsi la cosiddetta Operazione Siracusa, il progetto di risanamento del centro storico e del porto di Ortigia, per la quale crea diverse società insieme a Carboni e versa svariati milioni di lire a Balducci come anticipo. L’operazione non va a buon fine e Balducci si rifiuta di restituire la somma ricevuta, così il boss lo fa ammazzare dai testaccini Danilo Abbruciati, Enrico De Pedis e Raffaele Pernasetti. Le indagini su questo omicidio e sugli affari ambigui di Flavio Carboni, condotte dal giudice Ferdinando Imposimato, fanno luce sull’enorme mole di interessi economici che ruotano intorno alla figura di Mario Aglialoro che si scopre essere Giuseppe Calò solo grazie alle rivelazioni di Buscetta. Il giudice Imposimato paga il suo prezioso lavoro di inchiesta con la morte del fratello Franco, che viene assassinato nel 1983.
Secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia, a Roma il boss curava gli interessi economici dei Corleonesi di Totò Riina grazie alla collaborazione di Roberto Calvi e Licio Gelli, attraverso i quali riciclava il denaro sporco investendolo nello IOR (Istituto per le Opere di Religione) del Vaticano e nel Banco Ambrosiano. Inoltre, durante il processo Andreotti, il pentito Angelo Siino riferisce che Calò sarebbe stato in stretti rapporti d’amicizia con Francesco Cosentino, segretario generale della Camera dei deputati e affiliato alla Loggia P2 di Licio Gelli.
Nel 1981 il Banco Ambrosiano fallisce, Calvi cerca in tutti i modi di recuperare il denaro investito da Pippo Calò per conto della mafia siciliana, ma i suoi tentativi falliscono. L’anno dopo Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano subentrato a Calvi, scampa miracolosamente ad un attentato nel centro di Milano: in via Ercole Oldofredi, viene avvicinato da un uomo col viso coperto che tenta di sparagli, ma la pistola si inceppa. Rosone cerca di scappare ma il killer riesce a sparare ferendolo alle gambe; nel frattempo la guardia giurata, presente all’esterno della banca, interviene e spara al bandito uccidendolo: a terra resta Danilo Abbruciati, uno dei boss della Banda della Magliana. Il tentato omicidio avviene proprio dopo che Rosone aveva vietato ulteriori crediti, senza garanzia, concessi dal Banco Ambrosiano ad alcune società legate a Flavio Carboni. Calvi vola a Londra, forse per tentare un’azione di ricatto dall’estero mirata al recupero dei capitali persi, ma il 18 giugno 1982 viene ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri.
Nel 1983 Calò viene arrestato alla frontiera di Ponte Chiasso perché esibisce documenti falsi, ma non viene riconosciuto e quindi rilasciato. Raggiunto da un mandato di cattura firmato dal giudice Giovanni Falcone a seguito delle rivelazioni dei pentiti Buscetta e Contorno, il 30 marzo 1985, dopo 12 anni di latitanza, viene arrestato dagli uomini della Squadra mobile di Roma mentre sta rientrando nel suo appartamento in viale Tito Livio, in zona Balduina, in compagnia dei mafiosi Antonino Rotolo e Lorenzo Di Gesù. Nel corso delle perquisizioni, vengono sequestrati 380 milioni di lire in contanti, gioielli e quadri di Renato Guttuso e Girolamo Batoni. L’11 maggio la polizia perquisisce anche un edificio rustico presso Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti, acquistato dal mafioso attraverso il suo prestanome Guido Cercola: gli agenti trovano alcuni chili di eroina, un apparato ricetrasmittente, delle batterie, alcuni apparecchi radio, antenne, cavi, armi e diversi tipi di esplosivo compatibili con quelli utilizzati nella Strage di Natale del 23 dicembre 1984, quando una bomba esplose sul treno Rapido 904 Napoli-Milano, provocando 16 morti e 267 feriti.
Nell’ottobre del 1993, durante un’audizione dinanzi alla Commissione Stragi presieduta da Libero Gualtieri, si proclama estraneo alla strage del Rapido 904 e afferma di essere interessato alla riapertura del processo, sostenendo con messaggi ambigui che Pier Luigi Vigna – il pm della Procura di Firenze che lo ha fatto condannare – “è stato cattivo” e che “la mafia non c’entra con quella strage: traete voi le conseguenze e chiedetevi chi ha fatto scappare Schaudinn (l’artificiere della strage)”.
Calò è uno dei 475 imputati sottoposti a giudizio durante il Maxiprocesso di Palermo con le accuse di associazione mafiosa, traffico di droga e riciclaggio di denaro. Famoso il confronto col pentito Tommaso Buscetta, durante l’udienza del 10 aprile 1986, considerato il momento più caldo del Maxiprocesso poiché i due boss si accusano reciprocamente dei delitti più efferati. Buscetta, infatti, accusa Calò di aver fatto uccidere i suoi due figli, Antonio e Benedetto, su ordine di Totò Riina e di aver fatto sparire Giovanni “Giannuzzu” Lallicata, appartenente alla famiglia di Porta Nuova e ucciso in quanto amico dello stesso don Masino. Nel 1987, al termine del processo di primo grado, il boss viene condannato a 23 anni di reclusione, nonostante l’accusa avesse chiesto l’ergastolo.
Nel 1991 la Procura di Palermo deposita una corposa requisitoria di 1690 pagine – sottoscritta anche da Giovanni Falcone – al termine delle indagini sui “delitti politici” avvenuti in Sicilia (le uccisioni di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana; di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana; del deputato comunista Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo) in cui viene sottolineato il ruolo centrale di Calò, quale punto di unione tra forze eversive eterogenee: Cosa nostra, gli ambienti del Terrorismo nero, la P2 di Licio Gelli e la Banda della Magliana. La stessa requisitoria ipotizza che il boss, per conto della Commissione di Cosa nostra, avrebbe ingaggiato i terroristi neri Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini per uccidere Piersanti Mattarella nel 1980, in un quadro di cooperazione che si ripeterà per la strage del rapido 904 nel 1984.
Il processo di primo grado per gli omicidi Mattarella, La Torre e Reina comincia nel 1992. Nel corso dell’udienza del 19 novembre 1993, Calò viene messo nuovamente a confronto con Buscetta e, durante il reciproco scambio di accuse, lo apostrofa come “topo di fogna” negando l’esistenza della Commissione ribadita invece da don Masino. Nel 1995, al termine del processo di primo grado, il mafioso viene condannato all’ergastolo insieme agli altri boss membri della Commissione (Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia e Nenè Geraci), mentre i terroristi Fioravanti e Cavallini vengono assolti.
Nel settembre 2001, in una lettera inviata alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta durante il processo d’appello Borsellino-ter, ammette per la prima volta di aver fatto parte di Cosa nostra comunicando la scelta di dissociarsi dall’organizzazione mafiosa, ma senza accusare nessun altro. Nel 2005 Calò, Ernesto Diotallevi, Silvano Vittor, Flavio Carboni e la sua ex fidanzata Manuela Kleinszig, vengono rinviati a giudizio per l’omicidio di Roberto Calvi, ma due anni dopo sono tutti assolti per “insufficienza di prove”.
Alcuni collaboratori di giustizia hanno accusato Calò di essere uno dei mandanti dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, avvenuto a Roma il 20 marzo 1979, ma nell’ottobre del 2003 la Corte di Cassazione emana una sentenza di assoluzione “per non avere commesso il fatto” nei confronti del boss, imputato insieme a Giulio Andreotti, Claudio Vitalone e Gaetano Badalamenti. Contestualmente Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera vengono assolti dall’accusa di essere gli esecutori materiali del delitto, poiché le testimonianze dei collaboratori di giustizia vengono giudicate inattendibili.
LE CONDANNE
- Rinviato a giudizio nel 1985 insieme ad altre ventotto persone al termine dell’istruttoria del giudice Ferdinando Imposimato, nel febbraio dell’anno seguente la quinta sezione del Tribunale di Roma condanna Pippo Calò a 6 anni di carcere per favoreggiamento e ricettazione, ma lo assolve per il reato di associazione a delinquere.
- Nel 1992 la Corte di Cassazione rende definitive le condanne per la Strage del Rapido 904: Calò viene condannato all’ergastolo assieme a Guido Cercola, 24 anni per Franco Di Agostino e 22 per Friedrich Schaudinn, il tecnico tedesco che aveva messo a punto il congegno con cui era stato fatto esplodere a distanza il treno.
- Nel 1994, insieme a Salvatore Riina, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Michele Greco e Bernardo Provenzano, viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di 3 pentiti: Salvatore Anselmo, Mario Coniglio e Leonardo Vitale e per quello di Pietro Busetta (cognato di Tommaso Buscetta).
- Nel 1995, nel processo-stralcio del Maxiprocesso per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano e del professor Paolo Giaccone, il boss è condannato all’ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro.
- Nel 1997, nel processo per la strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e alcuni uomini della scorta, viene condannato all’ergastolo insieme ai boss Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Raffaele Ganci, Nenè Geraci, Benedetto Spera, Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano e Matteo Motisi.
- Nel 1997, nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova e dell’agente Lenin Mancuso, riceve un altro ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Salvatore Riina, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano.
- Nel 1998, nel processo per l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, viene condannato all’ergastolo insieme a Totò Riina, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Giuseppe Graviano, Pietro Aglieri, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Salvatore Biondino, Michelangelo La Barbera, Simone Scalici e Salvatore Biondo, mentre Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca vengono condannati a 18 anni di carcere e i collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante, rei confessi, sono condannati a 13 anni come esecutori materiali dell’agguato. Nel 2003 la Cassazione annulla la condanna all’ergastolo per Pietro Aglieri, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano e Benedetto Spera, ma conferma le altre.
- Nel 1999, a conclusione del processo Borsellino-ter per la Strage di via d’Amelio in cui perdono la vita il giudice Paolo Borsellino e alcuni uomini della scorta, Calò riceve un’altra condanna all’ergastolo in qualità di mandante insieme a Giuseppe “Piddu” Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo, Cristofaro Cannella, Domenico e Stefano Ganci.
- Nel 2000 per la Strage di via Pipitone, in cui persero la vita il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta, è condannato all’ergastolo assieme a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Antonino e Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto e Vincenzo Galatolo.
- Nel 2000 la seconda sezione penale della Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere condanna all’ergastolo don Pippo e Vincenzo Lubrano, un boss della camorra casertana, come mandanti dell’omicidio del sindacalista Franco Imposimato, fratello del giudice Ferdinando, ucciso a Maddaloni nel 1983. Assieme a Calò e Lubrano, vengono condannati a 13 anni di carcere Antonio Abbate e a 7 anni Raffaele Ligato, come esecutori materiali.
- Nel 2001, viene condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio del giornalista Mario Francese insieme ai boss Salvatore Riina, Francesco Madonia, Nenè Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Leoluca Bagarella.
LE ASSOLUZIONI
- Nel 1992, la Cassazione assolve definitivamente Calò insieme ai boss Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e Nenè Geraci come mandanti dell’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, avvenuto nel 1980.
- Nel 1998 viene assolto per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti insieme ai boss Salvatore Riina, Francesco Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci e Pietro Aglieri.
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