
Luigia Borrelli nasce a Iglesias, ma verso la fine degli Anni ’70 si trasferisce a Genova dove trova lavoro come infermiera presso l’ospedale San Martino. Conosce Mario Arnaldo Andreini, magazziniere già divorziato. I due si innamorano, vanno a convivere e dall’unione nascono Roberto e Francesca. Verso la fine degli Anni ’80 Mario non ne può più della vita da magazziniere e compra un bar a San Martino ma, non avendo i soldi necessari per ristrutturarlo, finisce in mano agli usurai e nel febbraio del ’90 muore lasciando Luigia con un debito di 250 milioni di lire e i figli da mantenere.
Due anni dopo, la donna viene sfrattata dalla casa in cui abita e si trasferisce con i figli in via Monticelli nei pressi dello stadio. Sempre più pressata dagli usurai compie la scelta più difficile, ma che in quel tragico momento è l’unica possibile: si licenzia dall’ospedale e diventa Antonella. Prende in affitto un monolocale nei Carruggi, in vico Indoratori, e inizia a prostituirsi.
Ha 42 anni, è minuta, capelli neri a caschetto, sa di non essere bella e non più giovanissima. Si veste in modo appariscente, con abiti e pantaloni aderenti, e si trucca pesantemente. I modi di fare tranquilli e accomodanti la rendono molto richiesta, soprattutto tra gli uomini più maturi, tanto da riuscire a pagare 2 milioni di affitto e a versare fino a 500mila lire al giorno agli usurai. Inoltre la donna esercita senza preservativo e questo le permette di alzare la tariffa a 50mila lire, mentre quella delle colleghe, che lavorano “protette”, in media è di 20mila lire. Particolare questo che sembra le avesse attirato molte antipatie.
I figli sanno che lavora in centro come infermiera a domicilio presso la signora Adriana Fravega, che in realtà è l’anziana ex prostituta proprietaria del monolocale che ha preso in affitto. Il 6 Settembre 1995 al mattino Francesca, 19 anni, chiama a casa di Adriana: sua madre non è rincasata ed è preoccupata. La donna le ha lasciato quel numero proprio per essere rintracciata in caso di necessità.
Adriana chiama i carabinieri, che alle 8:30 irrompono nel monolocale. È un ambiente piccolo e soffocante, illuminato solo da due faretti a luce rossa e con una tenda al centro che divide il salotto dalla camera da letto. Tra bicchieri, una vecchia radio e un televisore con il videoregistratore, Antonella giace a terra in un mare di sangue. Indossa dei leggings neri ed è nuda dalla vita in su, il corpo presenta numerose ferite ed ha la punta di un trapano elettrico conficcata nella gola. Sul tavolino c’è un pacchetto di sigarette MS (la donna non fumava) e tracce di sangue non riconducibili a lei. L’assassino prima di uscire si è lavato le mani, ha preso i soldi dal suo portafogli, ha chiuso a chiave la porta ed ha portato via anche la spazzatura perché probabilmente dentro c’erano i vestiti di Antonella.
L’autopsia stabilisce che la morte è avvenuta tra le 21:00 e le 23:00 della sera precedente e che nessuna delle 10 ferite è stata mortale, neppure quella provocata dal trapano. La donna probabilmente è morta ore dopo l’aggressione per una ferita vicino al cuore ed ha lottato con il suo assassino perché sotto le unghie ci sono tracce biologiche.
Gli inquirenti interrogano il figlio Roberto, 22enne che in passato pare avesse alzato le mani sulla madre, ma non viene trovato nulla a suo carico e viene quindi rilasciato. È la volta di Adriana e di altre prostitute che parlano di un cliente assiduo, un uomo sulla cinquantina: basso, stempiato, con gli occhiali e un tic nervoso. Inizialmente viene individuato un certo Sergio, infermiere che lavorava con Luigia al San Martino e con cui si vedeva spesso, ma l’uomo per quella sera ha un alibi di ferro perché si trovava dall’altra parte della città. Il giorno 11 settembre entra in scena Ottavio Salis, 52 anni, elettricista, sposato con due figli. Gli inquirenti arrivano a lui attraverso un assegno di 500mila lire che Antonella gli aveva versato per alcuni lavori effettuati nel monolocale, inoltre è il proprietario del trapano ritrovato nella gola della vittima.
Interrogato, l’uomo si contraddice più volte: prima afferma che il trapano non è suo, poi che lo ha lasciato lì perché avrebbe dovuto completare alcuni lavori. Afferma che quella sera era a casa con la moglie a guardare un film di cui però non ricorda il titolo e la figlia dichiara di averlo sentito russare verso le 23:00. In pratica c’è un buco proprio nelle due ore in cui sarebbe avvenuto il delitto. Inoltre sulle braccia ha dei graffi che non riesce a giustificare e sugli abiti ci sono tracce biologiche sospette: viene quindi richiesto l’esame del DNA.
Il 12 settembre viene iscritto sul registro degli indagati e il 14 settembre viene invitato a presentarsi presso il Palazzo di Giustizia così, terrorizzato, chiama il suo avvocato a cui ribadisce ancora una volta la sua innocenza. Verso le 18:30 viene visto camminare sulla sopraelevata, di fronte alla Lanterna, scavalca le protezioni e si butta di sotto. Morirà poco dopo in ospedale: in tasca 5 biglietti scritti di suo pugno in modo confuso: uno per la moglie, uno per i familiari, uno per l’avvocato, uno per il Maresciallo che lo ha interrogato ed uno per gli amici. L’ultimo disperato grido di innocenza di un uomo che, di fronte al sospetto abbattutosi su di lui, per non coprire di vergogna la sua famiglia compie l’estremo gesto. I fatti gli daranno ragione: 8 giorni dopo, infatti, la prova del DNA lo scagiona.
Si battono quindi altre piste: pare che la vittima facesse occasionalmente uso di droga e potrebbe aver contratto un debito in quel giro. Si indaga anche nel mondo della prostituzione perché potrebbe aver dato fastidio a qualcuno, ma per gli inquirenti la pista più accreditata resta comunque l’usura: si tratterebbe di una lezione ad opera di non uno ma ben due killer professionisti per indurla a continuare a pagare gli usurai. Una volta resisi conto di averla uccisa, avrebbero inscenato un delitto a sfondo sessuale.
Il 25 Marzo 1996, un’altra morte misteriosa: Adriana Fravega viene trovata morta nella sua casa dopo aver ingerito una forte dose di barbiturici. Ufficialmente è suicidio per depressione, ma resta il dubbio che si possa trattare di omicidio perché a conoscenza di qualcosa sulla morte di Luigia.
Ultimo colpo di scena nell’agosto del 2004, in procura arriva una lettera per il sostituto procuratore Patrizia Petruzziello:
Sono io il mostro del trapano. Anni fa ho compiuto un omicidio, non sono mai stato preso. Ho paura di finire per sempre in galera, la mia vita sta cambiando.
La missiva viene ritenuta attendibile perché contiene particolari che solo l’assassino può conoscere e sul francobollo non c’è traccia di saliva. Una vicenda fatta di tre tragiche storie, tutte finite con la morte. Tante ipotesi e una sola certezza: l’assassino non è mai stato trovato.
© Riproduzione riservata
Lascia un commento