La donna morì per spappolamento della milza. Il medico, che era il suo datore di lavoro, diagnosticò il decesso come morte naturale. Una lettera anonima dei cittadini di Casolla fece riaprire il caso
Dopo alcuni giorni dal decesso della donna pervenne una lettera anonima alla Procura:
Ill/mo Procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, il 30 settembre u.s. è deceduta in Casolla (Frazione di Caserta) la signora Lucia D’Amico, la quale è stata sempre percossa e maltrattata dal marito. Le voci che circolano nel paese e che hanno delle fondamenta sono che negli ultimi tre giorni di vita la D’Amico ha subito continue percosse le quali le hanno procurato la morte. La sorella della defunta di nome Nanninella, intervenuta poche ore prima della morte, richiese l’intervento del medico, Dottor Mario Piazza, il quale ha constatato che la donna non aveva alcuna malattia, ma che le sue condizioni erano gravi a causa delle percosse riscontrate. Difatti, dopo poche ore la D’Amico è deceduta. Se non che il medico dietro le premure dei familiari, che ritengono che un procedimento penale a carico del marito della defunta possa pregiudicare l’avvenire dei bambini, non ha fatto il suo dovere di presentare regolare denuncia all’Autorità giudiziaria. Tanto si rende informata V.S. Ill/ma perché dietro constatazione dei fatti ed autopsia della povera D’Amico, venga fatta giustizia. I cittadini di Casolla (Caserta).
A seguito della predetta segnalazione, la Procura iniziò un’indagine ordinando l’esumazione e l’autopsia del cadavere della D’Amico, affidando l’incarico ai responsabili della medicina legale di Caserta, Franco Agresti e Carmelo Pitea, i quali constatarono che “la morte era stata cagionata da causa violenta, per rottura della milza ed era stata provocata da un colpo violento, inferto all’ipocondrio sinistro a mezzo di un corpo contundente”.
Dunque la denuncia anonima aveva messo in moto la macchina della giustizia ed i fatti, fino a quel momento, avevano accertato la veridicità dell’assunto; che la donna veniva continuamente percossa dal marito Domenico Gentile, ma anche la palese “collaborazione” del medico, il dottor Mario Piazza, che aveva diagnosticato una morte naturale. Le pronte indagini portarono al sequestro della scheda di morte della D’Amico, in cui il Dr. Piazza attestava che “la malattia o stato morboso che aveva direttamente causato il decesso era stata la bronco-polmonite”.
A seguito dell’esumazione, dell’autopsia e degli esami istologici, si accertava che la morte della D’Amico – che presentava ben nove ecchimosi – era stata cagionata non già dalla “bronco-polmonite” di cui non vi era traccia nell’apparato polmonare bensì da due lunghi squarci della milza provocati da corpo contundente vibrato con forza all’ipocondrio sinistro e da conseguente anemia acuta.
Intanto i carabinieri e la Questura, interessati alle indagini concordemente riferivano che la D’Amico la mattina del 27 settembre si era recata a Napoli per una visita di controllo onde ottenere, essendo affetta da varici ed ernia ombelicale, la pensione come bracciante agricola. Di ritorno a casa, verso le 15.00 aveva avuto un alterco con il marito venuto a conoscenza nel frattempo che ella aveva per sé trattenute 1000 lire delle 5000 consegnatele qualche giorno prima per il pagamento del canone di fitto di un giardino condotto in locazione col marito da uno zio dello stesso, Pietro Gentile.
Per sottrarsi all’ira del marito, la donna aveva creduto opportuno rifugiarsi presso la propria madre in Tuoro, ma, durante il percorso, era stata raggiunta dal marito che l’aveva colpita fra l’altro al fianco sinistro con una grossa pietra rinvenuta all’inizio del viottolo dove la donna era stata colpita.
Pertanto veniva iniziato procedimento penale, sia contro il Gentile (per omicidio) che contro il medico Mario Piazza per la diagnosi “compiacente”. Nel corso degli interrogatori il Gentile, pur ammettendo di essere stato informato del fitto proprio il giorno 27 settembre – durante la visita medica della moglie a Napoli – insistette nel precisare che il giorno precedente aveva litigato con la moglie (e non il 27 settembre), ma che le aveva dato solo uno “schiaffetto”. Escluse inoltre di aver aggredito la moglie ed anzi precisò che la stessa era stata colpita da improvviso malore ed era caduta a terra sulla strada per Tuoro, mentre andava a casa della mamma ed egli, avvisato da alcuni vicini, l’aveva soccorsa e l’aveva portata a casa.
Dal canto suo il dottor Piazza, in qualità di medico curante della donna, aveva indirizzato la stessa per la pratica della pensione poiché affetta da bronchite cronica, lieve miocardia, ernia ombelicale e varici. Il medico confermò, inoltre, che la donna la sera del 30 settembre – quando cioè era stata l’unica volta chiamato dal Gentile – le aveva riscontrato focolai di bronco-polmonite e le aveva prescritto iniezioni di penicillina e cataplasmi. Precisò che non aveva avuto motivi, per la chiarezza dei sintomi rilevati, di visitare minuziosamente l’inferma, che d’altronde si era mostrata vergognosa di mostrargli le altre parti del corpo in quanto anche i suoi familiari nulla gli avevano detto delle lesioni che l’ammalata avrebbe presentato.
In conseguenza, avendo appreso l’indomani dal Gentile che la moglie era deceduta, non aveva esitato come medico curante, e non come necroscopo, ad attestare nella scheda di morte che la causa del decesso era stata appunto la riscontrata bronco-polmonite. Gli inquirenti osservarono che non vi era dubbio che la causa della morte della D’amico fosse stata la grave lesione alla milza e la conseguente emorragia interna, come non poteva dubitarsi che tale lesione fosse stata la conseguenza di un forte trauma subito dalla donna all’ipocondrio sinistro, ad opera proprio del marito Domenico Gentile. La D’amico, infatti, dai periti settori non venne trovata affetta né della bronco polmonite, attestata nella scheda di morte, né da altra malattia idonea a trarla a morte fra il 27 settembre, giorno sicuro della sua gita a Napoli, ed il primo di ottobre del 1954. La sua milza, invece, fu riscontrata infarcita di sangue e squarciata longitudinalmente per lungo tratto in ben due punti, con fuoriuscita addirittura di gran parte della polpa splenica.
Non può perciò non affermarsi – stabilirono i periti – che la emorragia derivatane, tanto imponente da invadere tutto il bacino, sia stata la causa determinante della morte della D’Amico. Così cospicua duplice rottura della milza non poté peraltro essere la conseguenza delle pretese due cadute della donna, a seguito di improvviso rinnovatosi malore sulle quali ha tanto insistito l’imputato, giacché esse non costituiscono, come è noto, cause sufficienti per la loro stessa modestia a determinare la lesione (e per giunta duplice così imponente) della milza che viene al contrario provocata solo da notevoli traumi.
D’altra parte basta considerare l’infruttuoso tentativo dell’imputato di indicare come presenti al preteso primo malore della moglie, oltre alla compiacente cognata Giovannina Capasso moglie di suo fratello, le vicine di casa Addolorata Trabante e Camilla Natale che per avere la riprova – scrissero gli investigatori nei loro rapporti – della inesistenza dell’improvviso malore della D’amico, rinnovatosi di giunta di lì a poco. Inesistenza che si rileva altresì dal fatto che la povera donna aveva sbrigato faccende a Napoli normalmente e da sola, in quanto suo fratello Raffaele si era limitato ad accompagnarla la mattina al policlinico e non ebbe a notare in lei disturbi di sorta.
La lesione alla milza fu invece l’esito di un forte trauma subito dalla D’amico, a causa di percosse ricevute, da cui scaturirono le molteplici ecchimosi rilevate in varie parti del corpo. In definitiva, nonostante le testimonianze (tutte a favore dell’imputato ma false) e le ferite riportate, Domenico Gentile si protestò innocente. E’ vero tuttavia che egli non colpì la donna con intenzione di ucciderla tant’è che poi il giudice istruttore lo rinviò al giudizio della Corte di Assise per rispondere “soltanto” di uxoricidio preterintenzionale.
VICENDA GIUDIZIARIA
Sentenza della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del (Presidente Giovanni Morfino; Giudice a latere, Renato Mastrocinque) contro Domenico Gentile, di anni 42, e Mario Piazza, medico di anni 45. Il primo accusato di omicidio aggravato per avere cagionato con atti idonei a commettere lesioni personali, con il lancio di un grosso sasso, la morte della propria moglie; il secondo per avere, nell’esercizio di una professione sanitaria, attestato falsamente nella scheda di morte che Lucia D’Amico era deceduta per bronco-polmonite, pur non avendo rilevato sulla paziente da lui curata i sintomi di tale malattia, consentendo l’interro della salma mentre il decesso derivò dal fatto delittuoso.
Nel dibattimento l’imputato si difese:
Nego l’addebito, io ebbi una discussione con mia moglie per la questione delle 5000 mila lire da versare a mio zio Pietro Gentile, e in quella occasione le detti solo uno schiaffetto. Al ritorno da Napoli mia moglie cadde su due o tre scalini del basso dove abitiamo, io e mia cognata Giovannina Capasso la facemmo sedere. Dopo poco si riprese e si avviò verso Tuoro, per avvisare la madre dell’esito della visita per la pensione avuta a Napoli.
Anche il medico nel dibattimento si protestò innocente.
Malgrado l’atteggiamento processuale dell’imputato, spiegabile d’altronde di fronte alle tragiche conseguenze non volute e non previste della sua azione violenta, e malgrado altresì egli fosse solito percuotere la moglie – scrissero i giudici nella sentenza di condanna – siccome la madre ci costei non ha esitato a contestargli, è il caso di concedere le attenuanti generiche in considerazione dei buoni precedenti dell’imputato e le misere sue condizioni economiche che lo spinsero a reagire con tanta violenza al non grave di certo non provocatorio atto della moglie, e di considerare anzi le dette attenuanti prevalenti sull’aggravante del rapporto coniugale. La pena di anni 10 comminata pel delitto non aggravato e che si ritiene di fissare come pena base può pertanto essere ridotta ad anni sette. In quanto al dott. Piazza – che la denunzia anonima indica chiaramente quale autore di un falso sia pure per favorire il Gentile, la Corte ritiene che le prove della sua conoscenza non siano sufficienti. Non è dato infatti accertare se il certificato da lui sottoscritto sia ideologicamente falso e rilasciato con la coscienza e la volontà di attestare il falso oppure sia frutto di superficialità e di equivoco nella diagnosi determinata anche dal silenzio di coloro che assistettero alla visita che egli la sera del 30 settembre indubbiamente fece alla D’Amico. L’equivoco infatti non è del tutto da escludersi e non già per le cure che egli avrebbe ordinate, ma piuttosto a causa della piccola zona iperonica riscontrata dai periti al polmone destro. Non c’è la prova certa che il dottor Piazza attestò il falso per favorire il Gentile che era suo fittuario e perciò va assolto per insufficienza di prove.
Nel processo furono impegnati gli avvocati: Francesco Lugnano, Leopoldo Terracciano e Ciro Maffuccini.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
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