
Un caso di cronaca ricco di pathos e misteri. Un episodio che ha segnato un’epoca, non solo in virtù della massiccia portata mediatica, ma anche e soprattutto per una serie di elementi distintivi che lo rendono davvero intrigante. Il cosiddetto Mistero di Via Monaci, conosciuto anche come Caso Fenaroli, costituisce ormai parte della storia contemporanea di Roma e d’Italia.
Tutto ha inizio l’11 Settembre 1958, quando di mattina presto Maria Teresa Viti suona il campanello di via Monaci 2, a Roma. É la domestica di casa Fenaroli, suona più volte ma nessuno apre. Preoccupata, chiede aiuto, fino a quando un vicino di casa riesce a entrate nell’appartamento rompendo un vetro della finestra della cucina. La scena che si presenta ai suoi occhi non è delle più belle: la padrona di casa, Maria Martirano, è riversa sul pavimento della cucina, con la testa rivolta verso il mobilio. Morta. Strangolata. Indossa una vestaglia a temi floreali. Nessun segno di effrazione. La donna è la moglie di Giovanni Fenaroli, geometra, titolare della ditta Fenarolimpresa, attiva nel settore dell’edilizia L’imprenditore da tempo abita a Milano.
In casa mancano del denaro e dei gioielli. Omicidio a scopo di rapina? No. Le indagini, condotte da Ugo Macera, come capita spesso in queste occasioni, fin da subito puntano la loro attenzione sul marito Giovanni. Si scopre che poco tempo prima i coniugi avevano stipulato un’assicurazione sulla vita, con premio di 150 milioni di Lire anche in caso di morte violenta, a favore di entrambi.
La cifra, molto consistente per i tempi, senza alcun dubbio avrebbe fatto comodo al Fenaroli, spesso a corto di liquidità e pare sull’orlo del fallimento, ma l’uomo ha un alibi di ferro. Gli inquirenti, infatti, fanno risalire il decesso della moglie tra le 23.30 e le 24.00 del giorno 10 e l’imprenditore a quell’ora si trovava a Milano, dove vive abitualmente ed ha sede la sua azienda, in compagnia dell’amministratore della società, il ragioniere Egidio Sacchi. Anche se il marito, al momento della morte della Martirano, si trovava nel capoluogo lombardo anziché in via Monaci a Roma, nulla vieta che in questo delitto vi possano essere un mandante ed un esecutore. Così le indagini continuano, seguendo la pista del delitto su commissione.
Il primo indizio concreto, che fa vacillare la posizione del Fenaroli, è dato dalla confessione del suo ragioniere, Egidio Sacchi, il quale durante l’interrogatorio della polizia afferma di aver sentito personalmente l’uomo avvertire telefonicamente la moglie che in serata sarebbe passato un suo uomo di fiducia, Raoul Ghiani, al quale avrebbe dovuto consegnare alcuni documenti più che delicati.
Ghiani è un giovanotto di professione elettrotecnico che il Fenaroli conosce in casa di un certo Carlo Inzolia, la cui sorella era da tempo la sua amante. Una volta rintracciato il Ghiani e messolo in contatto con l’imprenditore, grazie alla complicità dell’Inzolia, per gli inquirenti non è difficile aggiungere le altre tessere del puzzle e ricostruire il delitto, con al centro il bisogno di denaro.
Ghiani la sera del 10 Settembre 1958, dopo aver lasciato la fabbrica dove lavorava verso le 18:30, avrebbe raggiunto l’aeroporto della Malpensa da dove si sarebbe imbarcato sul volo Milano-Roma delle ore 19.30 col falso nome di “Wolfango Rossi”. Una volta nella capitale, avrebbe raggiunto via Monaci dove la Martirano l’avrebbe fatto entrare in casa in quanto preavvertita dal coniuge. Subito dopo, il viaggio di ritorno a Milano in treno, in vagone letto, dove sarebbe giunto al mattino appena in tempo per entrare in fabbrica. Nel corso del processo, gli avvocati difensori tentano inutilmente di smontare questa teoria, puramente indiziaria, dimostrando che non sta in piedi, a meno che l’uomo non avesse utilizzato un’auto autorizzata a saltare tutti i semafori rossi e superare senza intoppi il traffico caotico delle due città.
L’attesa per le sentenze del Caso Fenaroli è trepidante. Opinione pubblica e stampa dibattono aspramente attorno ai controversi fatti consumatisi la sera del 10 Settembre 1958: colpevolisti e innocentisti si affrontano nei bar, in strada, nelle case, sulle pagine dei giornali. All’esterno del Tribunale di Roma si raduna una folla di circa 20.000 persone.

L’11 Giugno 1961, Giovanni Fenaroli e Raoul Ghiani vengono condannati alla massima pena prevista in Italia: il carcere a vita. Carlo Inzolia, al contrario, viene assolto per insufficienza di prove. L’Appello, datato 27 Luglio 1963, conferma l’ergastolo per Fenaroli ma non l’assoluzione di Inzolia, il quale, riconosciuto complice, viene condannato a 13 anni di reclusione. Fenaroli muore in carcere nel 1975, Ghiani nel 1984 riceve la grazia del Presidente della Repubblica Alessandro Pertini, mentre Carlo Inzolia ottiene la libertà condizionale nel 1970.
Subito dopo, il giornalista Antonio Padellaro, aiutato dalle indagini di Enrico De Grossi, colonnello in pensione del SIFAR, fornisce un’altra lettura del caso: l’omicidio della moglie dell’imprenditore sarebbe parte di un complotto più ampio. Pare che il quadro finanziario della Fenarolimpresa non fosse così drammatico come emerso nel corso delle indagini ufficiali. Per questo, il Fenaroli non avrebbe avuto alcun motivo per uccidere la moglie. O meglio, sembra che l’uomo fosse stanco della compagna e in più circostanze avrebbe ammesso la volontà di liberarsene. La stessa polizza sarebbe stata al centro di strani movimenti: firme false, raggiri ma, tuttavia, non sarebbe Fenaroli il mandante dell’omicidio.
Secondo l’ex agente del SIFAR, Giovanni Fenaroli sarebbe entrato in possesso di alcuni documenti attestanti l’esistenza di tangenti elargite dall’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) di Enrico Mattei (ucciso in circostanze poco chiare il 27 Ottobre 1962) al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, in carica dal 1955 al 1962. L’uomo sarebbe passato al ricatto: 500 milioni di Lire in cambio dei documenti e del silenzio. Secondo il De Grossi, ci sarebbe stato un accordo e Gronchi avrebbe informato persino Giovanni De Lorenzo, capo del SIFAR dal 1955 al 1962, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri dal 1962 al 1966 e Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
In seguito due agenti segreti sarebbero andati a casa Fenaroli, dove Maria Martirano gli avrebbe chiesto altri 500 milioni di Lire, oltre a quelli pattuiti, per consegnare la fantomatica documentazione. Troppo per i due agenti, che avrebbero eliminato la donna, facendo ricadere la colpa su Fenaroli e Ghiani grazie a depistaggi. Secondo questa versione, Ghiani risulterebbe del tutto innocente, anzi, nemmeno presente sul luogo del delitto. Sarebbe stato incastrato da Fenaroli, Sacchi e dagli agenti del SIFAR. Insomma, una vicenda di fondi neri, cospirazioni nazionali, servizi segreti, militari, tangenti, giochi di potere, pezzi di Stato. Ingredienti tipici dei classici misteri italiani. A questa triste vicenda è ispirato il film “Il vedovo” del 1959, con Alberto Sordi.
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