Di Nunzia Procida
Il business della droga ha modificato radicalmente la storia delle mafie e l’entità dei loro guadagni che dovevano trasformarsi, sempre più velocemente, in reinvestimenti delle ingenti somme in circuiti economici legali. Questo aspetto ha contribuito a indagare su un possibile coinvolgimento delle donne – soggetti più deboli ai quali era precluso l’uso della violenza fisica, e fino ad allora non affiliabili all’Onorata Società – nel circuito economico-finanziario delle mafie.
Una realtà che è rimasta nascosta fino alla metà degli anni Ottanta, ovvero fino a quando non si sono visti nei tribunali gli esiti della legge n. 646/1982 (meglio conosciuta come legge Rognoni-La Torre), che definì per la prima volta il reato di associazionismo di stampo mafioso, offrendo, al contempo, nuovi ed efficaci strumenti per monitorare i patrimoni mafiosi.
La possibilità di emettere ordinanze di sequestro anche per beni registrati sotto nomi di apparenti insospettabili provocò non pochi problemi alle mafie che dovettero escogitare nuove modalità per sfuggire ai sequestri. Proprio nella fase di mascheramento degli arricchimenti illeciti, diventa più attiva la partecipazione femminile nelle attività di riciclaggio.
Dagli studi di Ombretta Ingrascì e Anna Puglisi [1] si evince quanto le donne siano state fondamentali nell’organizzazione economica delle mafie che le ha viste coinvolte nel ruolo di corrieri, spacciatrici, organizzatrici dei traffici di droga, ruoli che hanno fatto crollare la rappresentazione tradizionale della “femmina silenziosa” che vive all’ombra di un uomo (padre, fratello, marito).
Ne La Terra dei Santi (uscito nelle sale a Marzo), opera prima di Fernando Muraca, la ‘ndrangheta viene raccontata da un’ottica femminile. Il film racconta la storia di tre donne: Assunta (Daniela Marra), vedova di uno ‘ndranghetista; sua sorella maggiore, Caterina (Lorenza Indovina), moglie di un boss latitante; e Vittoria (Valeria Solarino), giovane magistrato all’inizio della carriera che vuole sconfiggere la mafia calabrese.
Quando Assunta viene obbligata a sposare il fratello del marito morto è Caterina a convincerla che non può fare diversamente perché così è stato deciso. A deciderlo è stato proprio il marito di Caterina che, dal suo nascondiglio, impartisce gli ordini per ciascuno degli affiliati al clan e la moglie si assicura che ogni suo ordine venga esaudito. Durante la latitanza del marito, è lei ad occuparsi degli affari del clan: spaccio di droga e di armi, distribuzione della mesata alle famiglie dei detenuti o degli assassinati fedeli all’organizzazione, vendette di sangue. È sempre Caterina che, quando il neo sposo di Assunta viene arrestato e lei scopre di essere incinta, provvede – con i soldi dell’organizzazione – alla sussistenza della sorella e dei suoi due figli e alle parcelle del miglior avvocato di Roma per far uscire di prigione suo marito.
Nicola Gratteri è stato il primo magistrato a capire che per fermare la ‘ndrangheta bisogna fermare, prima di tutto, le madrine. Un’intuizione che viene ripresa ne “La terra dei santi”: Vittoria comprende che per vincere la sua lotta deve affrontare le donne di ‘ndrangheta e lo fa chiedendo al Tribunale Minorile che vengano tolti loro i figli. Emblematico, a tal proposito, il dialogo serrato fra Assunta e il magistrato: “Ma che femmina sei che porti via i figli alle mamme?” – “E tu che madre sei che li porti a morire ammazzati?”. Un gesto forte, quello di Vittoria, che, mentre si mostra con tutta la sua gravità, si interroga e ci interroga sullo spirito della legge. Vittoria non si limita ad applicare la legge, ma cerca nella legge uno strumento, una soluzione “altra” al carcere e alla repressione del fenomeno: il nostro magistrato comprende che, se le madri custodiscono e tramandano ai figli il codice culturale mafioso, bisogna lavorare affinché questo passaggio di informazioni non avvenga. Un’azione – quella di Vittoria – che trova riscontro anche nella realtà: una sentenza della Procura di Reggio, nel 2007, chiese ed ottenne la decadenza dalla potestà genitoriale per il capomafia Giuseppe De Stefano.
Dal documento della Procura, si legge: “La situazione dei figli di mafiosi costretti a subire come normali, complici le madri, esempi estremi di vita criminale è sicuramente una situazione ben più grave di quella qualificabile come semplice abbandono. […] la famiglia di ‘ndrangheta, funzionando come palestra di addestramento al crimine elevato a sistema di vita, cessa di essere una cellula educativa della società civile” proponendosi come “una forma di schiavitù che aliena i figli dalla vita normale e li prepara ad un futuro fatto di certa inclinazione criminale”.
Caterina e Assunta, madri rispettivamente di Giuseppe e Pasquale, accompagnano i loro figli adolescenti nell’Onorata Società, consapevoli che il loro destino sarà il carcere o la morte violenta. Quando Giuseppe viene assassinato per proteggere Pasquale – così come aveva giurato durante il suo rito di iniziazione – Caterina ne progetta la vendetta: sarà il cognato a rispondere di quell’assassinio perché “il sangue va lavato col sangue”.
Ad Assunta la vendetta non interessa: niente potrà ridarle Giuseppe e nulla potrà mai colmare il suo dolore. Assunta, da donna di ‘ndrangheta, si riscopre donna, madre di un figlio vittima di una tradizione mafiosa che forse ella stessa ha sottovalutato e comprende, cercando l’aiuto di Vittoria, che il suo compito non è fornire altri soldati alla ‘ndrangheta, ma riavere la patria potestà del suo bambino e proteggere quello che porta in grembo.
[1] Si rimanda, tra gli altri, a O. Ingrascì, Donne d’onore: storie di mafia al femminile, Mondadori, 2007; Id., La mafia e le donne, A. Puglisi, Donne, mafia e antimafia, Di Girolamo (I ed. 2005)
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