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“La pelle che abito” di Almodóvar: violare corpo e anima per vendetta

17 Giugno 2021 da Webmaster Lascia un commento

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Di Mariantonietta Losanno

Sceneggiatura un po’ irrealistica per l’atipicità dei temi trattati, ma estremamente suggestiva: La pelle che abito è una storia di violazione, una rappresentazione del corpo come metafora di imprigionamento della sessualità.

Antonio Banderas è un attore acui Almodòvar, regista raffinato ma grottesco, è particolarmente affezionato: è stato lui, infatti, ad interpretare il suo alter ego in “Dolor y Gloria”. Come per Fellini era stato Mastroianni, Almodòvar attraverso Banderas si racconta senza filtri, senza paura di mettere a nudo il suo lato più privato, come i suoi problemi fisici scaturiti da mal di schiena, emicranie, acufeni, difficoltà di deglutizione, che resero più difficile il suo lavoro sul set; o i suoi problemi più dolorosi, quelli della mente, definiti “mali astratti”. Solo Banderas, con cui Almodòvar ha lavorato per più di trent’anni, poteva tradurre il suo cinema realizzando un viaggio nei ricordi, negli odori e nei colori; per poi affrontare gli amori, le dipendenze, le ossessioni di un artista che non conosce la realtà se non attraverso la sua arte.

Ne “La pelle che abito” Banderas interpreta un chirurgo plastico, Robert Ledgard , che ha perso la moglie in un incidente d’auto che l’ha completamente carbonizzata. Da allora, ha profuso tutte le sue energie, mettendo in campo il suo sapere di scienziato per costruire una pelle sostitutiva, più resistente di quella umana. Perfezionata l’invenzione e avendo bisogno di una cavia, non esita a rapire Vicente, il ragazzo che ha tentato di stuprare sua figlia, e ad obbligarlo a (soprav)vivere in un’altra pelle, che non gli appartiene.

Chi ricorre alla chirurgia estetica tendenzialmente cerca di migliorarsi ed ottenere un aspetto più vicino all’immagine che si ha di sé: l’idea è quella di liberarsi di un corpo che sembra non appartenerci e che non consente di vivere a pieno la propria identità/sessualità. Ne “La pelle che abito” la prospettiva è invertita: Vicente è prigioniero di un corpo che lo condanna a vivere in un stato perenne di “altro sé”. La sensazione che si avverte nel corso della narrazione è una claustrofobia costante (come se mancasse il respiro e si stesse in apnea, o come se ci si sentisse soffocare), accentuata da spazi asettici, porte sbarrate, maschere sul volto, oggetti taglienti. L’identità e il corpo di Vicente vengono violati, con una violenza e una freddezza indicibili gli viene letteralmente costruita una nuova pelle a cui deve necessariamente abituarsi e in cui deve abitare. L’imprigionamento viene rappresentato, però, come una reazione ad un abuso subito, come se fosse una sadica e spietata vendetta. Da abusante ad abusato: Vicente diventa vittima del sopruso messo in atto da lui stesso. 

La contraddizione più forte è l’atteggiamento del chirurgo/vendicatore: seppure le sue azioni siano brutali e non sembra esserci nessuna parvenza di morale, ha un aspetto mite e riflessivo, persino accudente. Non vuole solo trasformare il corpo, ma l’individuo per intero: non si preoccupa del dolore che provoca, ma al tempo stesso è attento a non provocarne altro, nutrendo con cura la sua cavia e assecondando i suoi desideri e i suoi interessi (che coltiva per costruire un luogo sicuro dentro di sé per evadere da ciò che gli succede attorno). A differenza del Dottor Frankenstein, che era spaventato e inorridito dalla sua creazione, il chirurgo interpretato da Antonio Banderas ha bisogno di possedere la sua creatura perfetta, per dare libero sfogo al suo narcisismo giustificando le sue azioni come espedienti per colmare il suo dolore. “La pelle che abito” mette in scena un tratto tipico del cinema di Almodòvar: l’eccesso. In questo caso, l’eccesso di amore dilaga in ossessione e perversione. Secondo il chirurgo è la pelle che abitiamo che può ricostruire la nostra identità, andando persino contro gli agenti esterni dannosi (come, ad esempio, le scottature): come si potrebbe vivere in un corpo che non ci appartiene, come si potrebbero assecondare gli istinti o le pulsioni? Quello di Almodòvar è un tipo di cinema a metà tra l’horror e il thriller: una violenza simile a quella di “Arancia meccanica”, un orrore come quello di David Cronenberg o Brian De Palma; nonostante i riferimenti, però, il cineasta spagnolo mantiene il suo lessico, la sua poetica e il suo stile. 

La pelle che abito è la chirurgia di una vendetta, un esperimento che ha come fine il raggiungimento di una perfezione ostentata e un mezzo per riscattarsi dal dolore subito. La pellicola racconta come una persona possa subire il controllo dell’identità attraverso la violenza fisica e psicologica; non c’è nessun intento moralistico, solo la volontà di mettere in scena l’orrore della sopraffazione e della perdita di dominio del proprio corpo. Tutto si basa sul “controllo”, o meglio sul “potere”: prima è nelle mani di chi abusa, poi di chi riceve il torto e per vendetta vuole provocare lo stesso dolore. Gli unici innocenti muoiono, tutti gli altri hanno violato qualcuno al punto di doverne pagare le conseguenze. 

© Riproduzione riservata

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