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Di Nunzia Procida
Col termine “Mobbing” si intende una forma di terrore psicologico perpetrato sul luogo di lavoro, esercitata da colleghi e/o superiori attraverso comportamenti prepotenti e aggressivi reiterati nel tempo. La vittima di questi soprusi viene emarginata, denigrata, calunniata: è quanto accade ad Anna (Nicoletta Braschi), la protagonista di “Mi piace lavorare (Mobbing)” di Francesca Comencini (2004).
Anna, madre single di Morgana (Camille Dugay) e figlia di un genitore disabile, fa la segretaria. Quando una multinazionale assorbe la piccola azienda in cui lavora, le vengono affidati compiti dequalificanti presentati, però, come “lavori di alta responsabilità” o “delicatissimi” che si traducono nel rimpicciolimento sempre più radicale della sua scrivania e, infine, nella discesa agli inferi: al piano dove lavorano i magazzinieri che arrivano ad additarla come “spia” provocando in lei il primo vero, manifesto, crollo del sistema nervoso. “Ha tutti i sintomi dello stress”, le diagnostica il medico quando Anna, esausta, decide di farsi visitare perché ormai incapace di fare qualsiasi cosa. Umiliata, emarginata dai colleghi con i quali condivideva la pausa pranzo e le confidenze, viene persino derisa quando, arrivata in ritardo ad una riunione alla quale non era stata volutamente convocata, il capo del personale non perde occasione per chiederle: “ma non si è tolta il pigiama lei stamattina?”
Anna indossa un completo bianco: la giacca l’ha comprata – non senza sensi di colpa e la paura di non arrivare a fine mese – il giorno precedente, sotto suggerimento della figlia. Anna butta la giacca, Morgana la ritrova, la ripulisce con cura prima di mettersi a piangere. I conflitti, le ansie, si spostano dal luogo di lavoro in casa: Morgana si accorge che la madre sta male e le chiede di parlare dei motivi del suo gesto che lei, vista anche la situazione economica in cui versano, non riesce a spiegarsi e l’accusa di essere “sempre stanca di lavorare”. Un’osservazione interessante perché si pone in completa antitesi con l’idea che Anna ha del suo lavoro: Anna, come annuncia il titolo del film, ama lavorare e non perde occasione di dimostrarlo con la sua puntualità, la sua costanza, la sua fretta nello svolgere al meglio i compiti – anche i più degradanti, come la sorveglianza della fotocopiatrice – che le vengono assegnati.
Anna, a detta delle sue colleghe, ha dei vantaggi sul lavoro: un padre malato (tutelato dalla Legge 104/1992) ed una figlia minorenne le permettono una busta paga di €1.500 – €200 in più rispetto alle altre – e la tutelano di fronte ai trasferimenti che si contestano durante l’assemblea con i sindacalisti. Qui una portavoce della CGIL cerca di far luce su quanto sta accadendo: “Voi conoscete qual era la situazione della vostra società prima della fusione. La società che ha comprato è una società che ha una filosofia molto precisa: la flessibilità totale, la disponibilità completa dei dipendenti. Non interessano i vostri problemi personali, i carichi di famiglia, le fatiche di tutti i giorni. Non contano niente. Flessibilità totale significa disponibilità 24 ore su 24. Hanno parlato di lavoro a chiamata, lavoro a turni avvicendati, trasferimenti continui. Guardate, parliamoci chiaramente, il settore trasferito, il settore amministrativo […] sono quasi tutte donne. […] Questo che cosa significa? Che il loro obiettivo è di porvi davanti alla scelta tra mantenere gli affetti, le relazioni familiari, i rapporti costruiti e il lavoro.” “Come possiamo difenderci?”, chiede una voce di donna. “Non si deve scegliere! L’errore è proprio questo: non si deve scegliere. Non è giusto porre le donne davanti a questa scelta. Non è giusto. Le donne devono continuare a lavorare e a mantenere le loro relazioni. Ve lo immaginate che significa che uno va a lavorare a Mondovì e torna [a Roma] il sabato e la domenica? Io credo che la cosa più normale è che ciascuno di noi pensi alla propria famiglia, a che cosa significhi trasferirsi e cerchi – è normale – cerchi delle soluzioni individuali. Guardate che la soluzione individuale, che ciascuno di voi avrà la tentazione di provare, è destinata ad essere sconfitta. Le persone sono delle cose fragili, si rompono facilmente. Le vessazioni che vi possono fare, individualmente, a ciascuno di voi, possono essere violentissime; ma guardate che la violenza non è quella per cui vi aggrediscono fisicamente: basta lasciarvi senza fare nulla, vi possono strappare la dignità, a ciascuno di voi”. Una subdola opera di pressione che costringe i dipendenti ad andarsene, a firmare una lettera prestampata di dimissioni che, nel caso di Anna, le viene messa sotto il naso dal dirigente: “Le abbiamo offerto già molte possibilità ma, come vede, lei è incompatibile con la nostra azienda. Le conviene firmare le dimissioni perché se pensa di restare le assicuro che diventeremo molto cattivi”.
Anna decide, allora, di parlare con la sindacalista per raccontarle quello che le sta accadendo: “Sei stata brava a non firmare la lettera di dimissioni perché significa che hai deciso di reagire, no? Non pensare che sei l’unica, che è qualcosa che è successo solo a te. Non è così: tu non hai idea di quanta gente ci viene a cercare per raccontarci storie simili alla tua”. Nulla di più vero: la storia del personaggio di Anna – nome tra i più diffusi in Italia – è la stessa di 800.000 donne che, solo negli ultimi due anni, sono state vittima di Mobbing [1] e costrette a dimettersi o licenziate.
Dimettersi è, però, l’errore più comune in cui cadono i lavoratori che, nonostante abbiano ottenuto una vittoria in Tribunale, tendono a cercare un nuovo lavoro. Ed è quello che fa anche la nostra Anna quando, ritirato il suo assegno di risarcimento, lascia l’azienda per essere assunta altrove; allorquando questa scelta non viene vissuta come una sconfitta, questa soluzione garantisce alla vittima di Mobbing una grande serenità interiore che si traduce in una possibile riconquista della fiducia in se stessi. Anna, al termine del film, è solare: ha i capelli sciolti, un vestito colorato, sorride.
Ad aiutarla nel suo percorso di rinascita molto ha fatto Morgana che, avendo visto sua madre toccare il fondo, la aiuta a rialzarsi, a cancellare le macchie di quanto ha vissuto e ridà nuova vita a una donna che aveva gettato la propria insieme a una giacca bianca.
[1] Dato fornito dall’Osservatorio Nazionale Mobbing-Bossing di Roma
Vorrei dire a chi vive analoga situazione di non preoccuparsi se a volte ” la convincono” di avere torto ed altre volte e’ convinto di avere ragione. Proprio da questa situazione oscillante trarrà’ la forza di andare avanti rafforzando nella lotta la propria autostima che dovrà’ coltivare nella massima riservatezza attenta a non provocare ….x evitare più’ gravi contraccolpi. Io ho denunciato i ” ladri” loro mi hanno denunciata di aver ” rubato” lo stipendio ……essendo inefficiente ……in associazione ” a delinquere con chi aveva espresso un giudizio positivo nei miei confronti ! Quando in un ambiente lavorativo e/ o sociale si vivono esperienze di mobbing/ stalking Qualcosa non va’. Chiediamoci sempre …..chi sono i nostri denigratori e perché’ lo fanno sapendo che la “mafia “…..non ha confini geografici!
Per 5 anni mi hanno mantenuta in uno scantinato, inattiva, denigrata e tanto altro. Ero l’unico dirigente di un ente locale, ma davo fastidio a chi doveva gestire appalti ed affari. Ho messo a frutto il tempo studiando e difendendomi da me impugnando tutti i loro atti. Sono stata reintegrata nelle mie funzioni con ricostruzione della carriera ed ho denunciato un malaffare di oltre 7 milioni di euro . Mi hanno collocato in pensione d’ufficio decurtandomi la base imponibile degli stipendi percepiti ritenendo che non spettano ad una dirigente incapace: avvocato, criminologa, giuslavostica, specializzata in tributario , amministrativo ecc ecc…….ed ora combatto per recuperare la mia pensione…….combatto ed intanto invecchio………
Forza Giulia, non mollare! Tieni duro e vedrai che vincerai la tua battaglia!