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Siamo animali sociali: tutti noi cerchiamo, viviamo, continue relazioni. Poche sono, a ben vedere, le persone che prediligono la solitudine: c’è chi, come Travis Bickle, preferisce stare in un ambiente tutto suo dove è difficile entrare.
Travis Bickle è il protagonista di Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976), interpretato da Robert De Niro: un uomo solitario, dalla mente brillante ma poco istruito, ha fatto il militare o, per meglio dire, ha fatto la guerra del Vietnam. Travis è un’anima inquieta alla ricerca di un “qualcosa” che non riesce a trovare e nella New York degli anni’70 è molto difficile per uno come lui trovare la propria collocazione, carpire la propria identità.
Travis ha ventisei anni, ha l’aria di una persona tranquilla, ordinaria. Parla pacatamente. Accenna sempre un sorriso impercettibile sul volto: la sua espressione è indecifrabile, anonima, come anonimo è il suo modo di vestire. È difficile intavolare un discorso con lui: parla poco, non fa domande; si limita a osservare tutto, a osservare tutti. Il suo obiettivo è trovare un lavoro che gli consenta di sfruttare positivamente la sua insonnia: il tassista di notte sembra fare al caso suo.
Datore di lavoro: – Insomma, qual è il tuo problema?
Travis: – Passo le notti in bianco.
Datore di lavoro: – Vatti a vedere i porno-film.
Travis: Ci ho provato ma non è lo stesso
[…]
Datore di lavoro: E allora che fai la notte?
Travis: Vado in giro fino al mattino in metropolitana. Allora ho pensato: se è così, è meglio che mi faccia pagare.
Datore di lavoro: Che quartieri preferisci? Bronx, Harlem…?
Travis: Per me non fa differenza.
Datore di lavoro: Lavori nelle feste ebraiche?
Travis: Per me non fa differenza.
La strada è il luogo dove Travis trascorre buona parte del suo tempo, filtrando la complessa ed eterogenea realtà cittadina attraverso un vetro: il finestrino del proprio taxi. L’auto diviene, all’interno della pellicola, metafora della sua mente che Travis cerca di proteggere dalle brutture del mondo. Quando è a casa, l’uomo trascorre il tempo a mangiare cibo spazzatura davanti alla televisione.
Qualche volta scrive lettere ai genitori, altre un diario personale dove appunta le sue impressioni:
“Vengono fuori gli animali più strani la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade per sempre”.
Travis non crede in niente: non ha fede né in Dio né negli uomini. È paranoico – soprattutto verso la borghesia – e profondamente razzista. Il suo senso di solitudine è sicuramente patologico ma, in superficie, resta sempre una scelta.
Scrive Carl Gustav Jung:
“La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. Quando un uomo sa più degli altri, diventa solitario ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia perché nessuno è più sensibile alle relazioni del solitario e l’amicizia fiorisce soltanto quando un individuo è memore della propria individualità e non si identifica più con gli altri”.
La solitudine di Travis nasce, quindi, dalla consapevolezza di essere diverso, di sapersi incapace di integrarsi in una società che, di fatto, lo disgusta. Annota sul suo diario: “La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto: nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi. Dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo”.
La svolta nella vita di Travis arriva quando, in uno dei suoi giri, incontra Betsy (Cybill Shepherd): bella, elegante, intelligente, raffinata, impegnata nella campagna politica del senatore Charles Palantine (Giorgio Piazza). Fin dal primo momento, il nostro avverte una profonda affinità con la ragazza e per questo inizia ad attenderla fuori dal lavoro per ore, la segue, la osserva a lungo. Betsy, ad un certo punto, si accorge di lui e manda un collega ad allontanarlo. Travis non solo non si dà per vinto ma decide persino di andare a parlarle nella sede elettorale dov’è impiegata.
Travis: – Vuole venire a prendere un caffè assieme a me?
Betsy: – Perché?
Travis: – Perché? Glielo dico subito: perché lei si sente sola. Io ci passo molto spesso qui davanti e la vedo: vedo sempre un sacco di gente insieme a lei e vedo tutti questi telefoni, tutta questa roba sul tavolo… non significa niente. E poi quando sono entrato e l’ho vista e ho visto i suoi occhi e ho visto come muove la testa ho capito che non è felice. E che ha bisogno di qualche cosa. E secondo me questa cosa di cui ha bisogno è un amico.
Betsy: – Lei vuole essere mio amico?
Travis: – Sì.
Travis è una contraddizione vivente e questo intriga Betsy,
almeno fino alla sera in cui i due escono per andare al cinema. Qui lei scopre
che si tratta di una sala a luci rosse e, per questo, indignata, lo lascia.
La donna inizia ad avere paura di
lui quando Travis va a farle una violenta scenata sul luogo di lavoro. Deluso e
arrabbiato, il ragazzo ritorna a rifugiarsi nel suo taxi.
Una sera sulla sua auto sale il senatore Palantine.
Palantine: – Posso farle una domanda, Trevis?
Trevis: – Certo!
Palantine: – Qual è la cosa della nostra nazione che le sta più a cuore?
Trevis: – Mah, non lo so: io non sto molto dietro alle cose della politica. Non lo so.
Palantine: – Ci pensi bene e la trova.
Travis: – Chiunque eleggono deve pensare a ripulire questa città. Fa proprio schifo. Da tutte le parti c’è gentaglia. Roba da rivoltare lo stomaco.
Il giovane tassista ha come obiettivi ripulire il posto in cui vive poiché gli provoca disgusto e mettere in salvo, compatire, le vittime di quel sistema corrotto creatosi nella società. La storia del vendicatore in lotta contro la violenza metropolitana, ricordiamolo, era già stata raccontata da un filone di film coevi come Il giustiziere della notte (Michael Winner, 1974) e Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo! (Don Siegel, 1971).
Travis non è un grande esperto di armi, ma sa bene cosa vuol dire maneggiarne una: in Vietnam è stato nei marines. Entra, allora, in contatto con un ricettatore che gli vende quattro pistole. Inizia a provarle, a maneggiarle. Inizia a sentirsi più sicuro, più potente. Compare a questo punto la scena più famosa del film: Travis minaccia e si minaccia allo specchio, ripetendo(si) in maniera ossessiva “Ma dici a me?”
Intravedendo, attraverso la violenza, uno spiraglio di salvezza per sé e per il mondo, Travis inizia ad allenarsi ogni giorno: il suo fisico diventa sempre più tonico, più forte. Abbandona i tranquillanti (che aveva iniziato ad assumere dopo l’esperienza della guerra) per sentirsi più vigile, più padrone di sé e, soprattutto, della sua violenza che, ora, è una bomba ad orologeria. Va regolarmente al poligono per migliorare la sua mira. A casa mantiene un contatto fisico costante con le sue pistole.
Sebbene dall’esterno nulla lasci trapelare il suo cambiamento, la metamorfosi del protagonista è avvenuta: la frustrazione, la tristezza, la rabbia prendono corpo quando Travis, senza alcuna esitazione, spara alle spalle un ladro che stava minacciando di morte il proprietario di un negozio di alimentari.
La “missione salvifica” – della quale Travis si sente investito – è, però, strettamente implicata, come si è già accennato, con la violenza e con un ideale di virilità violenta. Il suo modo di agire è espressione allegorica dell’immaturità e dell’ingenuità della giovane cultura americana. L’angoscia del protagonista è di natura esistenziale, ma lui non sa venirne a capo e così la traduce in un impulso distruttivo rivolto verso l’esterno. Si taglia i capelli ai lati, lasciandosi una lunga cresta da indiano mohawk: è pronto per la sua battaglia. Il suo obiettivo è Palantine ma, quando arriva dove il senatore sta tenendo il suo comizio, le guardie del corpo fanno fallire il suo tentativo omicida.
Quella sera, Travis decide quindi di andare da Iris (Jodie Foster), una giovanissima prostituta che, già in passato, aveva provato a sottrarre alla sua condizione. Giunto da lei, provoca e spara in pancia il suo protettore, Matthew “Sport” (Harvey Keitel); entra nell’edificio, ferisce il custode che incrocia sulle scale, passa oltre e raggiunge la ragazza. Iris è in camera sua con un cliente. “Sport”, intanto, ha inseguito Travis sulle scale, gli spara ferendolo al collo ma il nostro non sente dolore e continua a sparare. Iris gli grida di smettere ma Travis non riesce a fermarsi, generando così una vera e propria carneficina.
“Alla fine” – scrive Paul Schrader (che firma il soggetto e la sceneggiatura di Taxi Driver):
“[Travis] rimane ingannato perché la pistola è scarica. Ma, col tempo, il ciclo ricomincerà, e la prossima volta ci riuscirà. La redenzione o elevazione che cerca è quella di un adolescente […]. Non è abbastanza intelligente per attribuirvi un vero significato”.
A differenza di quanto ci si aspetterebbe, Travis, compiuta la sua “missione” viene accolto dai media e, per ironia della sorte, da Betsy non come un assassino ma come un eroe: se avesse ucciso Palantine, infatti, Travis sarebbe stato considerato un efferato criminale.
Scrive Alberto Pezzotta:
“Se esiste qualcosa come l’immaginario collettivo, repertorio di miti e icone immediatamente riconoscibili e provenienti dalla cultura di massa, un film come Taxi Driver vi possiede certo una nicchia ben illuminata. Travis Bickle, il tassista solitario animato da sensi di purezza (o, meglio, di pulizia) e che finisce per compiere una strage, diventando – contro ogni aspettativa – un eroe, è un’ossessione mitologica della fine del ‘900 alla pari di Charles Manson, Jim Morrison, Yukio Mishima, l’ispettore Callaghan e Rambo”.
Eppure, dopo la mattanza, Travis non appare più forte o più felice. Sembra, semmai, tornato al punto di partenza, alla vita alienante e solitaria che conduceva all’inizio del film. Travis si ritrova quindi malinconicamente solo. Al tempo stesso, l’ultimo sguardo inquieto di Travis nello specchietto lascia anche presagire, come già detto da Schrader, un nuovo scoppio di violenza in futuro, senza alcuna celebrazione del dubbio.
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